L’hanno bloccata sulla strada di casa e le hanno gettato in faccia un liquido ustionante. È l’ultima aggressione a Soni Sori, insegnante e attivista per i diritti dei nativi in una regione dell’India nota per le sue foreste, le sue miniere, e per la presenza di una guerriglia di ispirazione maoista. Soni Sori, lei, non è una militante maoista. Ma è una che da anni denuncia la violenza della polizia verso i “tribali” come lei, gli adivasi. È anche un’esponente del Aam, il “Partito della gente comune”, forza politica emersa negli ultimi anni a rappresentare istanze di giustizia sociale.
L’aggressione a Soni Sori è avvenuta sabato sera lungo una strada rurale del distretto di Dantewada, nella regione Bastar, nello stato del Chhattisgarh, India centrale. Quella zona di montagne, foreste e miniere è da tempo terreno di battaglia e di influenza politica di un partito maoista armato (i «naxaliti») a cui lo stato ha risposto mobilitando forze speciali, paramilitari, e squadre di vigilantes armati. Un conflitto brutale, che ha fatto terra bruciata di tutto ciò che sta in mezzo: attivisti sociali, sindacalisti dei minatori, difensori dei diritti umani – perfino medici o maestri di scuola come Soni Sori.
Sabato dunque Sori stava tornando a casa da Jagdalpur, il capoluogo della regione Bastar. Viaggiava su uno scooter con una collega; avevano appena tenuto una conferenza stampa per denunciare di aver subito pesanti minacce. Tre uomini su una moto le hanno bloccate non lontano da Dantewada: mentre le tiravano un liquido nero hanno urlato “smettila di denunciare l’ispettore generale” e “te ne pentirai” (mi baso sulla ricostruzione fatta da Scroll.in).
In effetti Soni Sori aveva documentato abusi da parte della polizia e da giorni stava tentanto di sporgere una regolare denuncia nei confronti del comandante di polizia del distretto, l’ispettore generale Kalluri. Invano, perché la polizia aveva rifiutato di registrarla. Guardacaso, lo stesso giorno le autorità di Dantewada le hanno notificato un’ordinanza di demolizione di casa sua: sostengono che è abusiva perché si trova su terreno pubblico.
Insomma, l’aggressione fa parte di una campagna. Appena due giorni prima la polizia aveva sgomberato una giornalista, una ricercatrice e un collettivo di donne giuriste dalle loro case a Jagdalpur, il capoluogo della regione Bastar: la reporter Malini Subramaniam stava scrivendo sulle accuse di stupri e uccisioni extragiudiziarie attribuite alle forze speciali di polizia; la ricercatrice Bela Bhatia aveva raccolto testimonianze; il Jagdalpur Legal Aid Group dava aiuto legale ai nativi vittima di abusi polizieschi. Sori e altre attiviste stavano anche organizzando una marcia di protesta per denunciare stupri e atrocità delle forze di sicurezza; la marcia avrebbe attraversato diversi distretti della regione Bastar per arrivare nel capoluogo Jagdalpur in coincidenza con l’8 marzo. In questo clima di intimidazione, la marcia è saltata.
La persecuzione verso Soni Sori, oggi quarantenne, è cominciata anni fa. Nel 2011 era stata arrestata con l’accusa di fare da tramite per i maoisti; pestata, torturata e fatta oggetto di sevizie sessuali durante il fermo nel commissariato di Dantewada (commissario allora era quel Kalluri, poi salito di grado), Sori ha fatto anni di galera, prima che le accuse si rivelassero pretestuose (ma lo stato del Chhattisgarh ancora non voleva scarcerarla: è tornata in libertà solo nel 2014 dopo una sentenza della Corte suprema in suo favore). Ma non si è lasciata zittire, anzi: eccola ancora a combattere per i diritti della sua gente.
La sua è una storia impressionante di violenza ma anche di coraggio e di resistenza. L’ho raccolta nel mio libro Il cuore di tenebra dell’India (Bruno Mondadori, 2012), da cui riprendo questo stralcio:
Prima di essere arrestata, a New Delhi [nell’ottobre 2011], Soni Sori si era recata nella redazione di Tehelka, noto magazine reputato per il suo giornalismo d’inchiesta: «Dovete aiutarmi a far sapere al mondo la verità». Soni Sori, 35 anni, tre figli, cresciuta in una famiglia adivasi politicamente attiva, maestra nella scuola governativa per bambini nativi vicina al suo villaggio, come persona istruita era diventata un punto di riferimento nella sua zona. Aveva organizzato battaglie come quella per aumentare il salario minimo dei braccianti nativi da 60 a 120 rupie al giorno, che poi è il minimo per legge (60 rupie sono poco meno di un euro). Una volta aveva denunciato che un dirigente di polizia del distretto intascava denaro dal taglio abusivo e contrabbando di teak, il legno tropicale protetto (ma la deforestazione illegale è rampante). Aveva collaborato con l’attivista gandhiano Himanshu Kumar e il suo ashram che dava assistenza medica e legale alla popolazione adivasi.
Un giorno del settembre 2011, ha spiegato la donna a Tehelka, un ufficiale del commissariato di polizia di Dantewada l’aveva avvicinata. Voleva che convincesse suo nipote, Lingaram Kodopi, a «cooperare»: doveva fingersi un maoista, accettare del denaro da un certo imprenditore della zona, e così consegnarlo alla polizia. Lei ha rifiutato, infuriata. Il giorno dopo, racconta ancora Soni Sori, un gruppo di uomini in abiti civili ha prelevato il nipote dalla casa dei genitori. Lei è corsa a chiedere spiegazioni alla polizia, che ha negato di averlo preso: «Saranno stati i naxaliti». La mattina dopo Soni Sori ha letto sui giornali che il nipote era stato arrestato mentre prendeva denaro per conto dei maoisti, e che lei stessa era latitante. E’ allora che ha deciso di fuggire [recandosi a new Delhi], cercare aiuto, raccontare la sua storia.
Anche Lingaram Kodopi, 25 anni all’epoca di questi fatti, era un giovane istruito – una licenza della media superiore è cosa rara da quelle parti. E anche lui aveva già avuto una storia travagliata. Anni prima la polizia voleva arruolarlo. Nel settembre 2009 la polizia lo aveva fermato e tenuto 40 giorni in isolamento per «convincerlo» con pestaggi e minacce a lavorare come “Special Police Officer”, la milizia di vigilantes e informatori: è uscito solo dopo che i familiari hanno presentato un ricorso in tribunale (un «habeas corpus») contro il fermo extragiudiziario. Poco dopo il commissariato di polizia di Dantewada ha diffuso la notizia che lui, Lingaram Kodopi, era un «comandante maoista» addestrato alle armi: l’accusa è stata però ritirata dopo che lo stesso Lingaram, aiutato da alcuni attivisti per i diritti umani, si è presentato alla stampa a New Delhi e ha raccontato la sua detenzione illegale.
Ritroviamo Lingaram a New Delhi nell’aprile 2010: aveva accompagnato alcuni adivasi della sua zona, vittime di abusi delle forze di sicurezza, e traduceva le loro testimonianze davanti a un «tribunale di cittadini» sui diritti civili. Per sottrarsi alla pressione Lingaram è rimasto a New Delhi, con una borsa di studio in giornalismo ottenuta grazie a una rete di giornalisti indipendenti: era il primo adivasi della regione Bastar a diventare reporter professionale. Ma voleva tornare al più presto nella sua regione: e voleva fare il reporter perché, diceva, «i tribali devono poter parlare con la propria voce». Collaborava con CGNet Swara, un notiziario indipendente trasmesso on-line o via telefono cellulare, innovativo esperimento di «citizen journalism». (…)
Prima generazione istruita nella propria famiglia, entrambi impegnati in attività sociali, punti di riferimento per gli abitanti della zona, sia Soni Sori che Lingaram Kodopi erano stati avvicinati dai militanti maoisti che gli chiedevano di unirsi a loro. Entrambi avevano rifiutato – qualche mese prima dell’arresto di Soni Sori suo padre era stato perfino «gambizzato» dai maoisti per rappresaglia, e la sua casa saccheggiata. Non si erano uniti ai ribelli, proprio come rifiutavano di lavorare per la polizia: non hanno accettato la logica «o stai con le forze di sicurezza, o stai con i naxaliti».
Uno dei «torti» di Soni Sori è proprio quello di essere rimasta a vivere in un villaggio dell’interno, a parecchi chilometri dal borgo di Dantewada dove ha sede l’amministrazione del distretto, lontano dalla strada statale, nel pieno di un conflitto ora aperto, ora strisciante, ma sempre inesorabile con la popolazione di quei villaggi a cui è chiesto di schierarsi con chi ha le armi in pugno – ribelli o forze dello stato.
Ma perché poi una donna istruita, maestra di scuola, che avrebbe avuto la possibilità di vivere più confortevolmente in città, si ostinava a vivere nel villaggio? Chi la conosce sa la sua risposta: per senso di responsabilità verso la sua gente, i Gond. In fondo lei era una delle poche persone istruite nel villaggio, e una delle poche che parlava hindi, che significa poter comunicate con la società più ampia – la mainstream India. Aveva contatti con i maoisti? A questa domanda, ha sempre detto Sori, «la cosa migliore è dire la verità: arrivano e chiedono cibo, e poiché sono armati gli dò cibo». Anche la polizia sa benissimo che qui tutti parlano con i maoisti, vanno alle loro assemblee e gli danno da mangiare: e chi potrebbe permettersi di non farlo? A volte Sori era in contatto con i maoisti per aiutare la gente del villaggio e proteggere se stessa, ma non credeva nella rivoluzione. Diceva che non aveva fede neppure delle forze di sicurezza o nell’amministrazione locale, che sono in combutta con i loro tradizionali oppressori, i ricchi thakur e i commercianti marwari. [I primi sono una casta di possidenti terrieri; con la casta di commercianti sono tra i gruppi sociali che hanno colonizzato le regioni indigene]
(…) Tehelka conclude citando la candida opinione di un comandante delle forze paramilitari in quella regione, che parla nell’anonimato: «Soni e Linga sono stati presi di mira per proteggere gli interessi della maggioranza non-tribale contro la minoranza aborigena. Una volta i tribali non avevano voce, ma queste due persone hanno cambiato le cose. Un tribale che fa il giornalista diventa una minaccia, come una che difende i suoi diritti». La polizia, concludeva, «vuole essere sicura che non ci siano voci di tribali». Per questo andavano messi a tacere con una montatura di accuse.
La polizia ha dichiarato di aver aperto un’indagine per identificare i responsabili dell’ultima aggressione a Soni Sori. Ma è facile prevedere che sarà presto archiviata.