Chi sono i Rohingya e perché fuggono dal Myanmar

Non c’è un Mare Nostrum nell’oceano Indiano. Anche là però ci sono barconi carichi di esseri umani che rischiano la vita nel disperato tentativo di fuggire, emigrare. Là nessuno propone di bombardare le imbarcazioni, ma succede un’altra cosa: le lasciano alla deriva. Nell’ultima settimana circa cinquemila persone si sono imbarcate dalle coste dello stato di Rahine, nel Myanmar (Birmania) occidentale, su pescherecci riadattati al nuovo business. Alcune di quelle imbarcazioni sono arrivate in Thailandia, Malaysia o Indonesia. Non tutte però.

La scorsa settimana Malaysia e Thailandia hanno respinto nuovi barconi, a volte rimorchiandoli fuori dalle proprie acque. Cronisti della Reuter, che hanno avvicinato un’imbarcazione con circa 300 persone a bordo, hanno descritto figure scheletriche, abbrustolite dal sole, esauste, lasciate senza viveri e acqua. Quel barcone è stato respinto da tutti. Altre barche sono alla deriva nel mar delle Andamane. (In questa foto, dell’agenzia Reuters, un barcone viene rimorchiato al largo da una motovedetta thailandese al largo dell’isola Koh Lipe, 16 maggio).

Alcuni migranti esausti sono stati tratti in salvo dai locali a Aceh, provincia indonesiana nel nord di Sumatra: ma ora le autorità hanno vietato ai pescatori di portare a terra altri migranti, perché sarebbero illegali.

«Un ping pong marittimo con le vite umane», lo ha definito l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Ora queste persone rischiano letteralmente di morire di sete, fame e malattia in altomare prima di trovare un approdo.

Secondo l’agenzia dell’Onu per i rifugiari, Acnur, dall’inizio di quest’anno circa 25mila Rohingya e bangladeshi hanno traversato la baia del Bengala su barconi, il doppio che nello stesso periodo del 2014: sembra che i numeri siano saliti dopo che la Thailandia ha preso misure per fermare il traffico di migranti verso la Malaysia sui percorsi già consolidati via terra.

Vani finora gli appelli dell’Onu a non respingere i migranti in mare. Venerdì il premier thailandese ha detto che se accolti, i nuovi migranti ruberebbero lavoro ai cittadini thailandesi. La Malaysia, l’economia più florida della regione, dice che ha già 120mila migranti birmani illegali. Il vicepremier malese domenica ha detto che spetta al governo di Myanmar farsi carico della sua gente.

Il governo birmano sostiene che non discuterà dell’esodo dallo stato di Rahine (già Arakan): finché se ne parla come di «esodo dei Rohingya» c’è niente da discutere, ha dichiarato il vicepremier, visto che quei migranti non sono cittadini birmani.

Perfino il nome Rohingya è contestato. Stiamo parlando di una minoranza composta oggi da meno di un milione di persone, musulmani in un paese al 90 per cento buddista. Il governo di Myanmar rifiuta di chiamarli Rohingya perché il nome alluderebbe a una minoranza autoctona: per il governo (e per il mainstream della società birmana) loro invece sono bengalesi, immigrati illegali.

Se non fossimo di fronte a una terribile emergenza umanitaria si potrebbe anche osservare chein effetti il nome Rohingya si è affermato in tempi recenti.

L’origine di questa popolazione è bengalese. Le fonti storiche parlano di piccoli insediamenti musulmani nel Arakan fin dal 15esimo secolo; questo territorio confina con il Bengala orientale (oggi Bangladesh) ed è normale che siano avvenuti passaggi di popolazione nel corso dei secoli. La storia di oggi però comincia con la dominazione coloniale britannica nel 19esimo secolo: i britannici infatti arruolavano in modo massiccio indiani come impiegati e funzionari dell’amministrazione coloniale, e anche come braccianti agricoli (circa metà degli indiani che allora si stabilirono in Birmania venivano dal Bengala).

In particolare, molti furono incoraggiati a stabilirsi nel fertile e poco popolato Arakan, dove serviva manodopera agricola. I musulmani bengalesi compaiono nei censimenti coloniali fin dal 1869, erano cittadini birmani, e il loro numero è continuato ad aumentare fino a metà del ‘900.

La seconda guerra mondiale ha portato eventi travagliati; il movimento nazionalista e l’indipendenza della Birmania furono accompagnati da moti contro gli indiani, guardati come i luogotenenti dei colonizzatori: molti tornarono precipitosamente in India.

Anche nelle campagne del Arakan ci furono tensioni intercomunitarie. È anche vero che tra i musulmani del Arakan negli anni ’50 nacque un movimento separatista, e che la rivendicazione di una identità etnica Rohingya risale ad allora. (Quel movimento fu schiacciato dopo il colpo di stato del 1962, quando i militari presero il potere in Birmania instaurando un regime autoritario e repressivo).

Tradizione inventata, apartheid vero. Oggi però tutto questo non è rilevante. Quanti discendono dai primi insediamenti musulmani e quanti da quelli arrivati in epoca coloniale non conta davvero più. Quello che conta è che la storia ha prodotto una minoranza di ceppo bengalese in Myanmar; una minoranza diventata forzatamente apolide nel 1982, quando la giunta militare birmana ha tolto la cittadinanza ai musulmani dello stato di Arakan.

La questione delle nazionalità era, e resta, uno dei problemi irrisolti nella costruzione della Birmania indipendente. Alcuni studiosi osservano che il nome Rohingya in effetti è usato sempre più spesso da allora, come una rivendicazione di identità. Ma questo non cambia molto nella tragedia attuale.

La parola Rohingya sarà anche «inventata», come si inventano identità e tradizioni: resta il fatto che questa popolazione è discriminata ed è stata oggetto di periodici attacchi da parte della maggioranza arakanese (buddhista).

Nel 2012 e 2013 i musulmani Rohingya sono stati oggetto di una vera e propria «pulizia etnica», case bruciate, decine di persone uccise, 140mila costretti a sfollare in campi profughi designati dal governo nei pressi di Sittwe, capitale del Arakan, da cui hanno divieto di uscire.  Altri – forse 700mila persone – vivono terrorizzati nei propri villaggi, anche loro isolati.

Oggi le agenzie umanitarie internazionali hanno pochissimo accesso a questa popolazione – l’anno scorso il governo di Myanmar aveva espulso anche i Medici senza Frontiere. Niente cure, poco cibo, isolamento totale: chi ha avuto qualche accesso ai Rohingya descrive una situazione vicina all’annientamento.

Per farsi un’idea vale la pena guardare il documentario girato da Nicholas Kristof, columnist del New York Times, nel giugno dell’anno scorso. Vedrete una donna che ha bisogno un cesareo ma invece è lasciata senza cure (sua figlia morirà), un funzionario locale che nega l’esistenza del problema (ma aggiunge che «i musulmani fanno troppi figli»). Musulmani dietro il filo spinato mentre monaci buddhisti spiegano, serafici, che quelli là vanno cancellati, perché sono animali violenti e minacciano l’identità buddhista del paese. Quando il reporter americano chiede a un bambino di 9 anni, arakanese, «se vedi un bambino come te, musulmano, cosa fai?», quello risponde «lo uccido».

Non stupisce che musulmani del Arakan, o Rohingya, o comunque si voglia chiamarli, vogliano scappare: oggi sembra l’unica alternativa all’annientamento.

Resta però una domanda: il movimento che si batte per il ritorno alla democrazia nel Myanmar, non ha nulla da dire sui pogrom e i musulmani dietro al filo spinato?

@fortimar