La notizia viene dal Guatemala: un attivista ambientale è stato ucciso, e altre tre sono scomparsi. Rigoberto Lima Choc, 28 anni, era maestro di scuola e da poco consigliere del municipio di Sayaxché, nel Peten. Era anche tra i primi abitanti di quella regione rurale e indigena a denunciare alle autorità l’inquinamento del fiume La Pasión. In giugno d’improvviso il fiume si era riempito di migliaia di pesci morti: un disastro per una popolazione di 30mila persone che vivono per lo più di pesca artigianale.
La causa erano i reflui chimici scaricati da Repsa, azienda che produce olio di palma. Rigoberto Lima e altri leader di comunità hanno raccolto prove e denunciato per vie legali l’azienda che li sta avvelenando: proprio venerdì scorso una giudice di prima istanza aveva ordinato la chiusura dell’impresa inquinatrice. La gente del luogo dice che la moria di pesci è l’ultimo disastro, la contaminazione chimica del fiume è un attentato continuo alla salute della popolazione stessa.
Un avvocato del Centro de Atención Legal, Ambiental y Social (Calas) ha detto quello che a tutti pare evidente: che gli assassini dell’attivista devono essere sicari mandati dall’azienda: «È davvero sospetto che sia stato ucciso il giorno dopo quella sentenza, e che tre leader comunitari che denunciavano l’ecocidio siano scomparsi».
L’assassinio dell’attivista è stato condannato dall’ufficio dell’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, e dall’organizzazione guatemalteca Unidad de Protección a Defensoras y Defensores de Derechos Humanos de Guatemala (Udefegua): dicono che l’attacco è conseguenza dell’inazione del governo, che non è intervenuto per cercare il dialogo né per far rispettare la legalità.
Attivisti sotto tiro
Il caso del maestro di scuola del Peten, Guatemala, non ha nulla di straordinario: ed è questo che è terribile. Come lui, ogni settimana, almeno due persone vengono uccise nel mondo per il loro attivismo ambientale: perché protestavano contro la devastazione delle foreste o delle terre su cui vivono, il taglio illegale delle foresta, l’esproprio di terre, o altro.
Nel 2014 almeno 116 persone sono stati uccise: alcune colpite dalla polizia durante una protesta, altre ammazzate da gang criminali o sicari. È l’organizzazione Global Witness a fare questo “censimento”, in un rapporto diffuso lo scorso aprile.
La ricerca mostra che di quei 116 attivisti ambientali ammazzati, il 40 per cento sono indigeni. E che la gran parte dei casi riguarda conflitti su dighe e centrali idroelettriche, miniere, e terre accaparrate da imprese agro-industriali. Secondo Global Witness il bilancio potrebbe essere più alto, perché in zone molto remote l’uccisione di un contadino o indigeno non viene necessariamente registrata come attentato a un attivista per la giustizia ambientale.
Non solo: tre quarti di tutte le uccisioni avvengono in America centrale e meridionale (29 solo in Brasile), con l’Asia sud-orientale al secondo posto. Global Witness inserisce questi dati in un trend di violenza e intimidazione. I passaggi sono chiari: si comincia a criminalizzare le proteste, limitare le libertà, modificare (o ignorare) le normative sulla protezione ambientale ignorando i diritti di chi dovrà sfollare per fare posto a una diga, o miniera, o piantagione industriale – o di chi si trova acqua e terra contaminate.
Intimidazione, arresti e uccisioni fanno parte di questo trend. Global Witness sottolinea con allarme che sempre più spesso i governo usano la legislazione anti-terrorismo contro gli attivisti, descrivendoli come attentatori della sicurezza nazionale – proprio come abbiamo visto in Ecuador.
Naturalmente ci sono poche informazioni su chi commette questi omicidi. Global Witnss osserva che nei casi in cui i responsabili sono stati individuati, risulta che 10 erano legati a gruppi paramilitari, 8 erano della polizia, 5 guardie di sicurezza privata e 3 militari.