Uomini arrancano su per la strada spingendo biciclette stracolme di sacchi di carbone. E’ uno spettacolo abbastanza frequente nella regione carbonifera di Hazaribagh-Jharia, nello stato del Jharkhand, India orientale: è il più grande bacino carbonifero dell’India, decine di miniere sotterranee e molte di più a cielo aperto. Accanto alle grandi miniere industriali però c’è una miriade di miniere informali, abusive. E gli uomini con le biciclette sono l’ultima pedina di una economia informale fondata sul carbone coke estratto e “lavorato” in modo artigianale, di solito in condizioni di grande fatica e pericolo – sono loro a distribuirlo ai consumatori di città. E’ un traffico illegale, ma tollerato, da cui dipende la sopravvvivenza di decine di migliaia di famiglie.
Pedalare sarebbe impossibile, con un carico di un paio di quintali: già solo reggere la bici costa fatica. Non resta che spingerla a mano. Sul ciglio della strada statale colonne intere di sacchi di carbone su due ruote sono spinti da esseri umani con la schiena piegata. A volte un bambino aiuta il padre, spingono in due. Facce scure di sudore e polvere, occhi fissi sull’asfalto.
In cima alla salita si fermano a tirare il fiato, prima di affrontare la discesa – frenare non è meno faticoso che spingere – poi altre salite… In quelle brevi soste sono più che disponibili a qualche parola. Così apprendo che vengono dai dintorni di Ramgarh, cittadina nota per le sue miniere di carbone. Vanno a Ranchi, città di un milione e mezzo di abitanti, capitale di questo stato dell’India orientale, il Jharkhand. E’ un viaggio di oltre cinquanta di chilometri attraverso un altopiano collinoso, e per loro dura 12, 13 ore. Questa è la parte più faticosa, dove la strada scavalca una linea di colline rocciose coperte di boschi e risaie. Partiti che era ancora buio, arriveranno col buio. In città aspetteranno fino al mattino, dormendo accanto alle loro bici, poi andranno a vendere il carbone porta a porta: ristoranti popolari, case private – molti fornelli urbani sono tuttora alimentati a carbone, le bombole di gas liquido sono comuni nella classe media ma non tra gli strati più popolari. Ma in questa zona dell’India, la vendita al dettaglio per il consumo minuto è di fatto affidata a questi venditori informali.
Finito il giro, venduto tutto, i cyclo wallah caricheranno la bici ormai leggera sull’autobus per tornare a casa. Avranno ricavato un migliaio di rupie, circa 15 euro, calcola un giovane uomo – chiamiamolo Sashi. Quante gliene restano in tasca alla fine? Quattrocento, cinquecento, a seconda dei casi: il resto va in spese (incluso un “pedaggio” a chi controlla il commercio? No, risponde: ma poi ride). Certo, Sashi potrebbe vendere il carbone ai grossisti di Ramgarh o di altri borghi lungo la statale: si risparmierebbe quelle 12 ore di fatica bestiale ma guadagnerebbe molto meno, spiega. Il loro è buon carbone, insiste, coke, e la domanda c’è. Così, un paio di volte alla settimana questi uomini vanno in città a vendere “in proprio”.
(…) Le loro biciclette muovono in un anno circa 2 milioni e mezzo di tonnellate di carbone, secondo la stima di due ricercatori australiani che hanno analizzato sul campo questa microeconomia del carbone. Per alcuni la trasferta arriva a Ranchi, con una notte fuori; per altri è un viaggio in giornata in cittadine meno distanti, come Hazaribagh. In ogni caso, in mancanza di un sistema formale di distribuzione al dettaglio, sono loro a rifornire i consumatori minuti, ristorantini popolari o case private.
(da: Marina Forti, Il cuore di tenebra dell’India. Inferno sotto il miracolo, Bruno Mondadori 2012, cap.9)