Ci sono voluti due anni: la polizia in Bangladesh ha formalmente accusato di omicidio il proprietario del Rana Plaza, l’edificio industriale crollato il 24 aprile 2013 provocando una strage. Nel crollo morirono 1138 persone e altre 2.500 furono salvate dalle macerie: quel giorno migliaia di famiglie hanno perso o una persona, o la salute fisica, e insieme la propria fonte di reddito.
Sohel Rana, il proprietario, fu arrestato pochi giorni dopo il disastro, mentre tentava di fuggire in India. Ora è imputato insieme ad altre 41 persone, i proprietari delle fabbriche di abbigliamento ospitate nell’edificio e una decina di funzionari governativi. Sono tutti accusati di omicidio aggravato (e non “colposo”, come ipotizzato in un primo tempo), e di aver di aver ignorato gli allarmi: proprio il giorno prima del disastro ispettori avevano avvertito del rischio che la struttura cedesse e raccomandato di non far entrare i lavoratori. Alcuni sono imputati di violazione delle norme edilizie.
Il processo prenderà tempo, gli imputati devono ancora nominare i propri difensori. Il fatto che siano stati necessari due anni è stato molto criticato. È vero che gli investigatori hanno dovuto registrare le deposizioni di oltre 1.200 testimoni, lavoratori sopravvissuti, funzionari, esperti. Ma tutti sanno che gli imprenditori dell’abbigliamento hanno una notevole influenza in Bangladesh – rappresentano una delle prime voci dell’export del paese – e non è difficile immaginare pressioni.
Il fatto stesso che si arrivi a un processo è senza precedenti: quello del Rana Plaza è il più grave ma non certo il primo disastro nelle fabbriche di abbigliamento in Bangladesh, ma è la prima volta che dei responsabili finiscono in tribunale.
Il disastro del Rana Plaza ha anche acceso, almeno per qualche tempo, l’attenzione internazionale sulle condizioni di lavoro dei circa 4 milioni di operai dell’abbigliamento in Bangladesh.
Dopo quel disastro il governo del Bangladesh ha approvato in gran fretta una legge che permette ai lavoratori dell’abbigliamento di formare sindacati anche senza il permesso dei proprietari delle fabbriche – ma questo non ha messo fine a vessazioni e minacce per i sindacalisti nel paese. Il governo aveva inoltre annunciato l’aumento del salario minimo mensile all’equivalente di 38 dollari: anche così, gli operai del tessile-abbigliamento in Bangladesh hanno il salario più basso al mondo, circa la metà di quanto prenderebbero in Cambogia.
Resta aperta la questione delle condizioni di lavoro nelle fabbriche di abbigliamento sparse in molti paesi per lo più asiatici, e della responsabilità delle aziende occidentali che se ne servono. Rintracciare responsabilità precise però è difficile, perché quella dell’abbigliamento è sì un’industria globale, ma non ci sono aziende che «delocalizzano»: ci sono solo «compratori» e «fornitori».
È chiamato il sistema della supply chain, catena dell’offerta globale: da un lato marche di abbigliamento spesso molto note nei paesi occidentali; dall’altro i produttori di quegli abiti e tessuti. I primi non producono, spesso non hanno neppure una fabbrica né operai alle loro dipendenze; si limitano a commissionare i loro capi ad aziende tessili sparse in paesi terzi. Chi produce sono queste aziende, concentrate soprattutto in Asia: Cina, Bangladesh, India, Sri Lanka, Indonesia, Pakistan, Cambogia. Il settore occupa decine di milioni di persone; ci sono aziende piccole e grandi e abbonda l’attività informale, non dichiarata.
I proprietari del marchio dunque sono solo «compratori» dei capi prodotti in Bangladesh o altrove. La competizione è fortissima; ogni «compratore» cerca i fornitori in grado di assicurare qualità, tempestività e costi bassi; le aziende produttrici si fanno concorrenza offrendo ai «compratori» prezzi migliori: e questo significa tagliare sui salari e aumentare i ritmi di lavoro.
«La paura più grande di ogni paese in via di sviluppo è perdere la gara ad aggiudicarsi gli investimenti stranieri: così creano “zone economiche speciali” senza diritti per i lavoratori, dicono che non si può alzare i salari altrimenti gli investitori scappano», sostengono i sindacalisti che in India hanno promosso la Asia Floor Wage Campaign, «campagna per un salario decente in Asia» (vi aderisce una settantina di organizzazioni in Asia meridionale e sud-orientale, Europa e nord America, più la rete internazionale Clean Clothes Campaign). Per questo, dicono, «i diritti del lavoro sono i più minacciati nel mondo contemporaneo».