La terra è sotto pressione, i terreni e le fonti d’acqua del pianeta sono sottoposti a uno sfruttamento “senza precedenti” nella storia umana, avverta un nuovo rapporto delle Nazioni unite. E lo sfruttamento di queste risorse fondamentali, combinato con l’impatto del cambiamento del clima, minaccia la capacità del pianeta di nutrire la specie umana.
Siamo abituati ad associare la questione del cambiamento climatico alla produzione di energia, ed è giusto: è bruciare petrolio, carbone o gas che genera i gas “di serra” che si concentrano in modo abnorme dell’atmosfera terrestre e riscaldano il pianeta.
Anche la relazione tra noi umani e la terra però ha dirette conseguenze sul clima. Come produciamo cibo, se proteggiamo le foreste o continuiamo a disboscare. Non solo: se le popolazioni rurali hanno accesso alla terra, o ne vengono cacciate; che tipo di agricoltura pratichiamo e quali consumi alimentari prevalgono; se la sicurezza alimentare è garantita a tutti o solo a pochi: tutto questo è legato al riscaldamento terrestre. Tra la crisi del clima e molte crisi sociali c’è una relazione diretta.
Di questo tratta il rapporto su “Terra e cambiamento del clima” (Climate Change and Land, Summary for Policymakers) diffuso giovedì 8 agosto dal Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), il comitato scientifico istituito dalle Nazioni Unite per fornire ai governi valutazioni scientifiche condivise sui cambiamenti climatici.
Il rapporto, redatto da un centinaio di ricercatori di 52 paesi, conferma ciò che molti scienziati e attivisti sostengono da tempo: se non cominciamo da subito ad abbandonare i combustibili fossili, le conseguenze della crisi del clima sulla terra e sul sistema alimentare globale saranno catastrofiche – anche se non equamente distribuite, perché colpiranno soprattutto le popolazioni più povere e vulnerabili.
Riassumiamo. Sappiamo che ogni cambiamento nelle condizioni del territorio influisce (e molto in fretta) sul clima circostante e su quello globale, perché può modificare il regime delle piogge e le temperature nel raggio di centinaia di chilometri.
La terra colonizzata dagli umani
Oggi la specie umana usa circa il 70 per cento della superficie terrestre libera da ghiacci, ci ricorda il Ipcc. Tra un quarto e un terzo delle terre disponibili sono usate per produrre cibo, mangimi, fibre tessili, legname, energia. L’agricoltura usa circa il 70 per cento dell’acqua dolce disponibile.
Nell’ultimo mezzo secolo, l’effetto combinato della crescita della popolazione umana e del cambiamento dei consumi alimentari ha prodotto una pressione senza precedenti sulla terra e le fonti d’acqua. Dal 1961 a oggi ad esempio la produzione pro capite di carne e oli vegetali è raddoppiata.
Un uso così intenso della terra ha esacerbato il degrado dei suoli, la perdita di nutrienti, erosione, desertificazione e così via. Il cambiamento climatico aggrava tutto: con eventi estremi più frequenti e più intensi, siccità, alluvioni, ondate di caldo, l’erosione delle coste, il livello dei mari che sale e il permafrost (le terre perennemente ghiacciate) che si scioglie. E tutto questo minaccia direttamente proprio la produzione di cibo.
Il cambiamento climatico ha già messo a repentaglio la sicurezza alimentare in molte regioni del pianeta, afferma il Ipcc. I rendimenti agricoli sono ormai declinati in molte regioni tropicali e subtropicali, e così anche la produttività dei sistemi pastorali in Africa. Abbiamo più regioni esposte alla desertificazione (in Asia e Africa, e nel Mediterraneo), agli incendi (nelle Americhe, Africa meridionale e Asia centrale), ai cicloni (le zone costiere tropicali e subtropicali). Avremo verosimilmente più persone costrette a spostarsi per cercare sopravvivenza, all’interno delle regioni e all’esterno. Vedremo sempre più conflitti per la terra e risorse sempre più scarse. Questi allarmi sono già circolati, ma qui abbiamo una conferma autorevole.
Ancora un dato: agricoltura, attività forestali e altri usi della terra rappresentano circa il 23 per cento della quantità totale di gas di serra di origine antropogenica (cioè generati dalle attività umane), calcola il Ipcc (il 13 per cento dell’anidride carbonica, 44 per cento del metano e 82% degli ossidi di azoto). Se si sommano le attività pre e post produzione, arriviamo a oltre un terzo delle emissioni.
Dunque, come usiamo la terra può fare una differenza fondamentale, per mitigare l’impatto del cambiamento del clima.
Il punto è come. Il documento del Ipcc parla di organizzare la produzione alimentare e gestire le foreste in modo sostenibile, per conservare gli ecosistemi e i nutrienti nei suoli. Raccomanda di eliminare gli sprechi (oggi circa un terzo del cibo prodotto viene scartato per vari motivi, spiega lo studio), e di rivedere la struttura dei consumi alimentari: nel mondo ci sono circa 2 miliardi di adulti in sovrappeso o obesi, mentre 821 milioni di persone sono denutrite.
(Molti si aspettavano dal Ipcc un appello a diventare vegetariani o vegani: ma sarebbe stato riduttivo. Il documento parla di diversificare il sistema alimentare, di diete bilanciate con più vegetali e legumi e proteine animali prodotte in modo non distruttivo – e meno carne, sì, perché l’allevamento intensivo è insostenibile).
Alcune misure evocate dal documento hanno impatto immediato: ad esempio preservare le foreste di torba, le mangrovie e le zone umide, perché intrappolano tonnellate di carbonio. Altre sono indispensabili ma daranno frutti più a lungo termine, come ripiantare alberi e rigenerare suoli degradati. In ogni caso sono tutte possibili, urgenti, e spesso già praticate.
Il Ipcc però sottolinea due cose importanti. La prima è che c’è un limite al possibile uso della terra per “mitigare” il cambiamento climatico. Se ad esempio volessimo puntare tutto sugli agro-carburanti dovremmo usare almeno 7 milioni di chilometri quadrati di territorio, avverte: più dell’intero Brasile. Territorio che sarebbe tolto alla produzione alimentare, magari spingendo coltivatori e allevatori su zone naturali ancora protette. Il risultato sarebbe accelerare il degrado, invece di fermarlo, mettendo agrocarburanti contro la sicurezza alimentare. Il Ipcc raccomanda opzioni che non competano per la terra.
(E questo significa che non si sfugge: resta indispensabile cominciare subito la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili – sole, vento).
La giustizia della terra
L’altra cosa importante è che un uso sostenibile della terra ha benefici immediati e a lungo termine per chi ci vive. Ovvero, conservare la produttività della terra e la biodiversità, aumentare la concimazione organica, preferire le varietà autoctone, proteggere i bacini idrici e le foreste, invertire il degrado degli ecosistemi e così via, sono una strategia che contribuisce allo sviluppo umano, alla sicurezza alimentare e alla lotta alla povertà.
Per questo il documento parla anche di garantire l’accesso alla terra, per esempio riconoscere i diritti consuetudinari delle popolazioni native, e valorizzare i saperi locali, garantire più potere alle donne, promuovere la partecipazione. Un po’ di giustizia sociale fa bene al clima, e viceversa.