C’è un aspetto della crisi climatica di cui troppo poco si parla: le ripercussioni negative del riscaldamento terrestre sulla salute della popolazione umana. Ma si potrebbe anche dire l’opposto: i benefici per la salute generale che deriverebbero da un’economia che limita i combustibili fossili, dice addio al carbone, in città dove si usa meno l’automobile, dove tutti mangiamo meno carne rossa, e così via.
Di questo tratta un rapporto pubblicato dall’Istituto superiore di sanità, dedicato al nesso tra la salute e il clima. È un documento allarmante, perché descrive un’Italia assai vulnerabile al cambiamento del clima e alle sue ripercussioni; ma è anche un documento che indica soluzioni possibili. Il titolo è “Mitigazione del cambiamento climatico e prevenzione sanitaria in Italia: la politica dei co-benefici” (pubblicato il 3 novembre 2021, è online sul sito dell’Istituto superiore di Sanità).
L’Italia è particolarmente esposta al riscaldamento globale del clima. Qui è ormai superata la soglia di 1,5 gradi centigradi di aumento della temperatura media globale, indicata come linea rossa dalle conferenze dell’Onu sul clima. Secondo dati diffusi il 10 novembre dall’Istituto superiore di protezione e ricerca ambientale (Ispra), in Italia nel 2020 la temperatura media ha superato di 1,54 gradi centigradi quella del periodo 1961-1990, con picchi di 2,88 gradi in febbraio. Ed è un trend ormai stabile.
Per misurare quanto siamo esposti al cambiamento climatico, il rapporto dell’Istituto superiore di sanità usa alcuni indicatori, ripresi da una ricerca internazionale pubblicata da Lancet Countdown alla vigilia della Conferenza mondiale sul clima di Glasgow.
Un indicatore sono i picchi di temperatura: nell’ultimo decennio l’Italia ha visto ondate di calore più intense, prolungate e frequenti rispetto al periodo 1985-2005. Per la popolazione sopra ai 65 anni ciò peggiora patologie preesistenti, soprattutto cardiovascolari e respiratorie. Il rapporto stima che il 2,3 per cento dei decessi registrati in un anno (il 2015), sia dovuto proprio alle ondate di calore. Un altro indicatore: tra il 1950 e il 2020 è raddoppiata la superfice di territorio affetta da siccità per oltre un mese l’anno, con ripercussioni sulla disponibilità di acqua potabile oltre che sull’agricoltura.
“Abbiamo individuato tre grandi aree in cui l’azione è urgente”, spiega Marco Martuzzi, direttore del dipartimento ambiente e salute dell’Istituto superiore di sanità (e uno dei curatori del rapporto): i trasporti, la produzione di energia, l’agricoltura e allevamento. Sono le grandi fonti di gas di serra che alterano il clima, “e sono le aree in cui ridurre le emissioni porterà grandi miglioramenti per la salute di tutti”.
Le misure prese dall’Italia per tagliare le emissioni però sono insufficienti, e questo è un altro indicatore da considerare. I combustibili fossili restano dominanti, anche perché continuano a ricevere sovvenzioni pubbliche; nei trasporti ad esempio, il 96 per cento dell’energia usata per i veicoli su strada è fossile. L’obiettivo di “de-carbonizzare” l’economia è lontano. Questo pesa anche sull’inquinamento dell’aria, e quindi sulla salute dei cittadini: l’Italia è il secondo paese in Europa, dopo la Germania, per numero di morti attribuite alla presenza di polveri sottili nell’aria (il particolato PM 2,5), secondo dati del 2019.
L’inquinamento atmosferico illustra bene la relazione tra salute e clima e anche i “co-benefici” a cui allude l’Istituto superiore di sanità. Tra i fattori di rischio per la salute, la qualità dell’aria è quella su cui abbiamo le evidenze più chiare, osserva Paola Michelozzi, dirigente del Dipartimento di epidemiologia della Regione Lazio e coautrice della ricerca pubblicata dal Iss.
Prendiamo ad esempio le polveri sottili. Nel settembre scorso l’Organizzazione mondiale della sanità ha dimezzato il limite suggerito per il PM 2,5 da 10 a 5 microgrammi per metro cubo (anche se l’Unione europea mantiene la sua norma a 25 microgrammi). “Sappiamo che in Italia la concentrazione media di queste polveri è di 16 microgrammi per metro cubo”, fa notare Carla Ancona, ricercatrice del Dipartimento di epidemiologia del Lazio e coordinatrice della Rete italiana ambiente e salute (Rias). “Ma nelle città della pianura padana la media sale a 20 microgrammi, con picchi fino a 28, perché qui c’è la maggiore densità urbana e di impianti industriali, e condizioni meteorologiche che favoriscono l’accumulo nello strato basso dell’atmosfera”. L’inquinamento dell’aria si traduce in malattie e morti premature, stimate con metodologia ormai consolidata. Il Dipartimento di epidemiologia del Lazio stima che al PM 2,5 si debbano quasi 51 mila decessi in più ogni anno in Italia, di cui oltre 30 mila nelle regioni del nord. “Ovvero, se fosse rispettata quella soglia di 5 microgrammi per metro cubo avremmo l’8 per cento di decessi in meno”, sottolinea Michelozzi.
“Il cambiamento deve partire proprio dalle città”, dice Carla Ancona. Qui vive il 70 per cento della popolazione italiana, intrappolata tra cemento, scarichi di auto, riscaldamento e impianti industriali. Aumentare gli spazi di verde pubblico e diminuire le auto potrebbe attenuare le “isole di calore” urbano e insieme permettere ai cittadini di respirare e fare attività fisica.
Il messaggio è chiaro: dalla pianificazione urbana ai trasporti, dalla produzione di energia al cibo, “de-carbonizzare” la nostra economia farebbe un gran bene alla salute generale.
(Questo articolo è uscito su L’Essenziale del 20 novembre 2021. Nella foto, una veduta di Taranto con l’acciaieria)