Le manifestazioni si susseguono da gennaio a In Salah, città un migliaio di chilometri a sud di Algeri, in pieno Sahara. Altre agitazioni si segnalano a Tamanrasset e a Ouargla, altre località del profondo sud algerino. Da oltre due mesi uomini, donne, studenti, anziani sono mobilitati in marce, sit-in, assemblee: una vera rivolta popolare. Obiettivo delle proteste sono le operazioni di estrazione del gas di scisto tramite fratturazione idraulica, o fracking, avviate dall’ente di stato Sonatrach insieme alla multinazionale francese Total, dall’americana Halliburton e altri.
Un progetto multimiliardario: che però suscita proteste unanimi in quella regione nel cuore del deserto. La scorsa settimana la polizia ha lanciato lacrimogeni sui dimostranti che presidiavano Sahat Somoud, davanti agli impianti petroliferi. Una provocazione che ha innescato scontri inusitati, veicoli bruciati, edifici municipali presi d’assalto, decine di arresti (sono circolate perfino foto di un ultranovantenne trascinato via dagli agenti).
Ora l’esercito presidia la zona: cosa che non ha impedito altre manifestazioni nella domenica 8 marzo, una sorta di celebrazione battagliera con donne e artiste. Una nuova manifestazione è annunciata il 14 marzo a Ouargla.
Le proteste sono cominciate dopo che il ministro dell’energia è andato in tv ad annunciare, il 27 dicembre, che la prima perforazione sperimentale era avvenuta «con successo» nei pressi di In Salah. «Questa perforazione conferma l’esistenza di importanti riserve di gas di scisto nel bacino dell’Ahnet», diceva trionfante il ministro: e parlava di «nuove prospettive economiche per l’Algeria», di almeno 8.000 posti di lavoro.
Gli abitanti di In Salah e delle altre città del profondo sud hanno scoperto così di essere accanto al primo sito di fratturazione idraulica del loro paese. Il 1 gennaio sono cominciate le agitazioni. Il 15 gennaio oltre 15mila persone hanno manifestato a In Salah, 4 000 a Tamanrasset, 5 000 a Ouargla: «Marea umana contro il gas di scisto», titolava il quotidiano El Watan. Da allora il movimento è andato in crescendo, suscitando grande attenzione sulle tv e sui social media arabi e francofoni (e infine anche sulla stampa internazionale).
Un movimento civico. Il Fronte contro il gas di scisto, che riunisce diverse associazioni e personalità, dice che non si fermerà finché non avrà ottenuto la moratoria sul progetto di fracking, perché mette in pericolo il delicato sistema acquifero sotterraneo condiviso da Algeria, Libia e Tunisia. Insomma, minaccia l’acqua a cui è appesa la vita di quel territorio desertico. «Tutti al mondo sanno che è pericoloso», dice Fatiha Touni, insegnante di scuola divenuta una leader del movimento: «Non possono venire a fare esperimenti su di noi. L’acqua è tutto ciò che abbiamo, ne abbiamo bisogno per crescere i raccolti e abbeverare gli animali» (riprendo queste citazioni dal Financial Times, 9 marzo).
Non era mai successo, un movimento che mette in discussione la politica governativa sugli idrocarburi, cioè la prima fonte di reddito nazionale. Pare che l’Algeria, noto paese produttore di petrolio e di gas «convenzionale», sia anche il terzo paese al mondo per i giacimenti di gas di scisto sfruttabili, 19.800 miliardi di metri cubi sparsi in sette bacini (tra cui quello di Ahnet). Il governo ha incluso l’estrazione di gas di scisto in una legge del 2013, ma cosa passata inosservata ai più e ben poco dibattuta: fino a quando il ministro dell’energia ha annunciato il «successo» della prima perforazione, e in quella remota regione è scoppiata la protesta.
Le autorità finora hanno risposto alzando un muro. Prima hanno accusato i dimostrtanti di essere agenti di «potenze straniere». Il presidente Bouteflika ha detto di aver ordinato ogni salvaguardia per l’ambiente e la salute, ma il progetto deve andare avanti: «Tutte le fonti di energia sono un dono di Dio ed è nostro dovere usarle per lo sviluppo del paese», ha dichiarato il mese scorso.
Nelle proteste traspare un profondo risentimento. Un senso di ingiustizia: la ricchezza del petrolio va più al nord, la redistribuzione è diseguale. L’impatto ambientale invece resta tutto al sud.
Il fracking richiede grandi quantità d’acqua, che viene sparata ad alta pressione, mista a sabbia e agenti chimici, per spaccare le rocce per rilasciare il gas: in una regione del deserto l’acqua è preziosa. Il pericolo di inquinare la falda è reale. Così la protesta continua.