L’Amazzonia è di nuovo scomparsa dai nostri schermi, dopo il clamore suscitato dalla crisi degli incendi della scorsa estate nell’Amazzonia brasiliana. Eppure, la deforestazione non rallenta: secondo l’Istituto nazionale di ricerca spaziale del Brasile (Inpe, Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais), che con i suoi satelliti monitora i cambiamenti nel territorio amazzonico, da agosto 2018 a fine luglio 2019 sono scomparsi 9.762 chilometri quadrati di foresta, quasi il 30 per cento più dell’anno precedente quando erano scomparsi 7.536 chilometri quadrati.
Non solo. Analizzando i dati diffusi dall’Ine a novembre, l’Istituto di ricerca ambientale dell’Amazzonia (Ipam) osserva che il 35 per cento delle foreste distrutte in quell’arco di tempo erano in terre “non designate o su cui non ci sono informazioni”, cioè territorio pubblico. “Questo è grilagem“, dice Ane Alencar, direttora scientifica dell’Ipam, usando il termine che indica l’appropriazione illegale di terra pubblica attraverso la contraffazione dei documenti di proprietà: “Quelle foreste sono patrimonio di tutti i brasiliani e vengono dilapidate illegalmente per finire nelle mani di pochi”. Buona parte della deforestazione registrata in questi anni dunque è avvenuta su terre illegalmente sottratte al bene pubblico; il resto su aree private, ma eccedendo le quote ammesse. Inoltre, sono raddoppiati gli incendi all’interno delle riserve indigene, in particolare in quelle del fiume Xingu, e a nord, nel Roraima: perché sono aumentate le invasioni di terre demarcate e assegnate a comunità native. Ad aggravare le cose, le stagioni secche sono più intense e più lunghe.
Gran parte degli incendi della scorsa estate sono avvenuti lungo una linea chiamata “arco della deforestazione”: una fascia che va dal Parà a ovest, a parte del Mato Grosso, al Rondônia che confina con la Bolivia, fino allo stato di Acre verso la frontiera con il Perù: come una grande mezzaluna che circonda l’Amazzonia da sud. La relazione tra incendi e disboscamento è nota: tagliati gli alberi, le fiamme servono a liberare la zona deforestata per poi farne pascoli o coltivazioni. È noto ormai che gli incendi della scorsa estate sono stati in gran parte deliberati e hanno anche una data di inizio, il 10 agosto, quando centinaia di roghi sono stati appiccati contemporaneamente dal Parà al Rondônia. È stato chiamato “o dia do fogo”, il giorno del fuoco. In quei giorni, alcuni fazendeiros hanno dichiarato con candore la propria intenzione al giornale Folha do Progresso, del Parà: con gli incendi coordinati “abbiamo inteso appoggiare il governo”, sostenere la politica del presidente Jair Bolsonaro di “aprire la foresta amazzonica allo sfruttamento economico moderno”.
Così, ogni stagione di incendi segna una nuova avanzata delle coltivazioni intensive, pascoli, fabbriche di mangimi (quello che i padroni dell’agrobusiness chiamano “sfruttamento moderno”, al contrario della piccola agricoltura familiare e sostenibile praticata dagli abitanti della foresta, indigeni e non). Intanto, secondo diversi studiosi, ampie zone dell’Amazzonia sono ormai vicine al punto di “non ritorno”, cioè quando la foresta non è più in grado di rigenerarsi.
Gli incendi sono parte di una sorta di guerra in corso nell’Amazzonia brasiliana. Una guerra di conquista, combattuta a colpi di invasioni di terre, comunità assediate, scorrerie di bande armate agli ordini di grandi latifondisti e imprenditori, e di attivisti uccisi. Non che questo sia una novità in Amazzonia: ma nell’era di Bolsonaro il conflitto per la terra è divenuto più violento, mentre le istituzioni di controllo sono delegittimate (vedi il reportage dall’Amazzonia brasiliana su Altreconomia, ottobre 2019).
Favelas fluviali
Intanto sorgono altri conflitti. Sono legati alle gang che controllano il narcotraffico che usa il rio delle Amazzoni come una specie di autostrada e alla crescita della povertà urbana.
Infatti, anche se l’immaginario di questa regione è legato alla foresta e ai fiumi che la solcano, ai popoli indigeni e alle comunità tradizionali, ormai il 70 per cento della popolazione amazzonica vive in aree urbane. Metropoli storiche come Manaus e Belem, con oltre due milioni di abitanti, hanno almeno un paio di secoli di storia e continuano a crescere. Ma negli ultimi trent’anni si sono moltiplicati anche i centri urbani minori, cresciuti per lo più attorno al commercio delle derrate agricole o dei minerali, o ai cantieri di grandi opere come la diga di Belo Monte sul fiume Xingu: dove la città di riferimento, Altamira, è decuplicata in pochi anni. Nel solo delta amazzonico oggi si può contare una cinquantina di agglomerati tra diecimila e un milione di abitanti. Ogni comunità rurale espropriata della terra finisce per ingrossare la popolazione urbana. Quando si dice città però bisogna intendersi: strade asfaltate e amenità come l’acqua corrente sono limitate, le infrastrutture urbane sono minime. Invece crescono insediamenti informali, ammassi di case su palafitta che sembrano un po’ villaggio fluviale e un po’ favela urbana, segno di una trasformazione ormai inesorabile anche in Amazzonia.
Come Breves, cittadina in pieno delta del Rio delle Amazzoni, sull’isola di Marajò che è grande due volte la Lombardia. Dista undici ore di battello fluviale o sei ore di catamarano da Belem, la capitale del Parà, uno dei grandi stati dell’Amazzonia brasiliana. (Il reportage da Breves, pubblicato il 4 ottobre 2019, è online su Internazionale.it)