Negli ultimi due mesi la più grande regione dell’Etiopia è stata teatro di un’ondata di proteste e di una feroce repressione, in cui almeno 140 manifestanti sono stati uccisi. Proteste per la terra: una rivolta contro la requisizione di terre per alimentare l’espansione urbana, a quanto pare, ma anche contro l’accentramento del potere e l’emarginazione politica ed economica di un’intera regione rurale.
Cerchiamo di ricostruire i fatti, per come sono trapelati sulla stampa internazionale. Le proteste hanno interessato lo stato di Oromia, il più ampio del paese, abitato da milioni di persone che vivono per lo più di agricoltura. L’Etiopia è citata per la sua veloce crescita economica, una delle “storie di successo” dell’Africa: ma è anche uno dei regimi più autoritari e repressivi del continente. Così, il fatto stesso che la notizia sia circolata dice che sono state una sfida inusitata per il potere dello stato.
Le prime notizie risalgono a metà dicembre e vengono dalla città di Wolenkomi, 45 chilometri a nord-ovest della capitale Addis Abeba. Una scena filmata da un attivista con un telefonino è arrivato ai media stranieri: vi si vedono persone che scandiscono “basta con le uccisioni”, protestano contro la polizia che giorni prima aveva ucciso quattro manifestanti (riprendo la notizia dal quotidiano londinese The Guardian).
A scatenare la rabbia sono state delle requisizioni di terre, e in particolare un piano per estendere i confini amministrativi di Addis Abeba, la capitale in cerca di nuovo spazio per espandersi. In pratica, parte del territorio di Oromia sarebbe stato trasferito al distretto federale. Le autorità parlano di «sviluppo integrato», opportunità di lavoro, ma non è così che la vedono gli abitanti.
In effetti le proteste in quei giorni si sono estese a una trentina di città. Secondo testimonianze citate sempre dal Guardian, erano cominciate in modo pacifico: ma quando la polizia ha cominciato a sparare anche i manifestanti hanno cambiato tono; sono stati assaltati uffici pubblici, bruciati commissariati di polizia. Il corrispondente del Financial Times cita ad esempio Suluta, cittadina nella cintura di Addis, «dove nuove fabbriche e espansioni urbane stanno occupando terre finora coltivate»: dice che manifestanti arrivati dalle colline hanno attaccato stazioni di polizia e altri simboli dello stato.
I manifestanti (quelli citati dai due giornali britannici, e da altri media internazionali come al Jazeera) dicono che permessi di costruzione, fabbriche e lavoro andranno a beneficio della gente di città e di quelli ammanicati con il potere, non dei contadini a cui sarà tolta la terra.
L’ondata di proteste si è calmata in gennaio, quando il governo ha ritirato il progetto di annettere territorio al distretto di Addis Abeba. Il fatto che il governo abbia ceduto alle proteste è un altro fatto inusitato.
Nella zona è tornata la calma, anche se la tensione resta forte, secondo tutte le testimonianze.
Il fatto è che le ragioni di malcontento sono profonde. In parte è una questione etnica, o meglio di distribuzione del potere. Gli Oromo sono il più grande gruppo etnico dell’Etiopia, fanno circa il 40 per cento dei 95 milioni di abitanti, e hanno una lingua (Afaan Oromo) diversa dall’amarico, lingua ufficiale.
In teoria l’Etiopia è una federazione di nazionalità, ma il potere è accentrato dalla minoranza Tigray. «Questa è una rivolta contro la marginalizazione politica, la non-rappresentazione, e contro la corruzione», ha detto (al Financial Times) Merera Gudo, presidente del partito di opposizione Oromo Federalist Congress, e il suo unico dirigente che non sia in galera, benché sia un partito perfettamente legale, e sia il maggiore in Etiopia dopo quello al potere (il Fronte Democratico popolare rivoluzionario, che con i suoi alleati controlla tutti i 547 seggi del parlamento). Il vicepresidente del Congresso Federalista Oromo, Bekele Gerba, è stato arrestato il 23 dicembre, cosa che ha ulteriormente infiammato la crisi, denuncia Human Rights Watch.
Tra i motivi di risentimento poi c’è la corruzione, il fatto che progetti e investimenti vengono imposti senza consultazione da un governo autoritario. (Un ministro del governo etiopico ed ex sindaco di Addis Abeba, Arkebe Oqubay, dice al Financial Times che quel piano di espansione era inteso a coordinare lo sviluppo delle infrastrutture tra Addis e le città satellite: ammette però che non c’è stata «abbastanza consultazione pubblica»).
L’espansione urbana intorno alla capitale è solo uno dei problemi. Il governo punta a trasformare l’Etiopia in una potenza industriale, e procede senza grande considerazione. Secondo la costituzione, la terra è tutta di proprietà dello stato, che ne può disporre: per dare mega concessioni agro-industriali a imprese straniere, spostando a forza gli agricoltori locali e la loro economia di sussistenza; o per costruire mega dighe sul Nilo, o per fabbriche e quant’altro.
In un paese in gran parte rurale, provato dalla siccità, con economie locali impoverite, questo è un motivo di tensione profonda. Naturalmente su questo si inseriscono speculatori, funzionari corrotti che legalizzano trasferimenti di proprietà illegali; sotto pressione, piccoli agricoltori preferiscono svendere e andarsene prima di subire espropri di forza. Notizie di proteste per la terra continuano a circolare. E la tensione resta alta.