Una siccità devastante affligge da ormai otto anni la Siria e il Vicino Oriente, la regione che va dalle coste orientali del Mediterraneo fino all’altopiano iranico passando per Iraq e Giordania. Probabilmente è la più grave ondata di siccità registrata dei tempi moderni, da quando esistono strumenti per misurare le condizioni climatiche.
Ma non è solo un fenomeno naturale: un gruppo di meteorologi afferma che è conseguenza diretta delle «influenze umane sul clima», si legge in uno studio pubblicato lunedì dalla rivista della National Accademy of Science degli Stati uniti (sotto il titolo «Cambiamento del clima nella Mezzaluna fertile e implicazioni della recente siccità siriana»). Dovuta al cambiamento del clima, ha probabilmente contribuito a creare le condizioni del conflitto in Siria, aggiungono gli scienziati.
I trend del clima. Lo studio ricollega la siccità del Vicino Oriente al trend osservabile da circa un secolo nel clima della regione: meno piogge, aria più secca. Il calo delle precipitazioni in Siria, spiegano, è legato all’aumento della pressione media sul Mediterraneo orientale; venti più deboli portano meno aria carica di umidità dal mare sulla terraferma, mentre l’aumento della temperatura media ha accelerato l’evaporazione dai terreni. E questo combacia con le simulazioni computerizzate su come la regione risponde all’aumento della concentrazione di gas «di serra» nell’atmosfera. Insomma, dicono i ricercatori, è vero che il Vicino oriente ha sempre conosciuto periodi più secchi, ma la naturale variabilità non basta a spiegare ciò che vediamo oggi. Per la precisione, dicono che il cambiamento del clima di origine antropogenica ha aumentato di due o tre volte le probabilità di una siccità disastrosa. Aggiungono, modelli del clima alla mano, che sul Mediterraneo orientale bisogna aspettarsi un clima futuro in media sempre più secco e caldo.
Siccità e conflitto. Dunque tra il 2007 e il 2010 la Siria ha conosciuto anni di siccità feroce: era poco prima che cominciasse la rivolta sfociata in una guerra civile. Le conseguenze sono state drammatiche, oltre il 60 per cento del territorio siriano è stato colpito e in particolare le zone del nord-est solcato dal fiume Eufrate, tradizionale «cesto del pane» del paese: i governatorati di Aleppo e Hassakeh, che da soli fanno più della metà della produzione di grano nazionale, o quelli di Idlib, Homs, Dara. Tre quarti delle famiglie dedite all’agricoltura nel nord-est del paese hanno perso il raccolto più volte in quei tre anni, diceva il Global Assessment Report on Disaster Risk Reduction 2011, pubblicato dalle Nazioni unite.
Sta di fatto che prima della siccità il settore agricolo in Siria contava per il 40 per cento dell’occupazione e il 25 per cento del Prodotto interno lordo, ma quegli anni di penuria hanno spinto tra 2 e 3 milioni di persone nella povertà (su una popolazione totale di circa 20 milioni).
Così è cominciato l’esodo dalle campagne: fino a 1,5 milioni di persone sono emigrate verso le aree urbane. Ma le città siriane erano già in situazione di stress per il grande afflusso di rifugiati venuti dal vicino Iraq, dopo l’invasione guidata dagli Usa nel 2003. Dunque un numero crescente di persone senza grandi mezzi per vivere si sono trovate a competere per il poco lavoro disponibile e per servizi e infrastrutture urbane già carenti.
La siccità «ha avuto un effetto catalizzatore» sulla crisi sociale e politica precipitata in Siria dopo il 2011, affermano gli autori dello studio. Che così riprendono quanto osservato alcuni mesi fa da altri due studiosi, Francesco Femia e Caitlin Werrel, in una analisi sull’impatto del cambiamento del clima nella regione. (Nessuno ovviamente dice che la siccità ha «provocato» la guerra: ma che una serie di cambiamenti sociali, economici, ambientali e climatici in Siria «hanno eroso il contratto tra cittadini e governo», contribuendo alla perdita di legittimità del regime e ad alimentare lo scontento esploso nel conflitto).
La Siria sarebbe dunque un caso di quel legame tra cambiamento del clima, degrado ambientale e conflitti di cui si discute da anni, sia tra esperti in studi sulla sicurezza che tra ambientalisti. Molti altri fattori entrano in gioco, ma l’ipotesi è fondata.
La siccità intanto continua, e ora si somma alla devastazione della guerra: a partire dal 2012 la superficie coltivata si è ridotta, i sistemi di irrigazione, acquedotti e altre infrastrutture sono danneggiati, le zone una volta più fertili sono teatro della competizione tra gruppi armati, coloro che coltivavano sono fuggiti. Non abiamo dati precisi su cosa avvenga nelle zone sotto controllo dello Stato Islamico, ad esemio: nel vicino Iraq il governo dice che nella regione controllata dal IS la capacità produttiva del’agricoltura è crollata del 40 per cento. In Iraq e Siria tutto dice che anche i prossimi raccolti saranno magri.