Tra mille polemiche e grandi proteste, il parlamento indiano ha approvato in marzo una modifica della «Land Bill», la legge che garantisce «equo compenso e trasparenza» nella acquisizione di terre. Sono così vanificate le misure che dovevano tutelare gli agricoltori e le comunità rurali a cui viene tolta terra per fare spazio a miniere, poli industriali e centri urbani. L’acquisizione di terre è diventata una delle questioni politiche più scottanti in India oggi: ne sono un promemoria le manifestazioni viste negli ultimi mesi a New Delhi.
Perfino Anna Hazare è tornato a guidare una marcia di protesta sulla capitale indiana. Hazare, anziano ex impiegato pubblico dai modi austeri e le reminiscenze gandhiane, è diventato un volto famoso in India quattro anni fa, quando ha lanciato una campagna contro la corruzione raccogliendo adesioni massicce nella popolazione urbana di questo immenso paese. Alla fine di febbraio l’austero signore era di nuovo a New Delhi ad arringare la folla, ma questa volta il suo pubblico era per lo più rurale: migliaia di persone venute a protestare contro la proposta del governo di modificare la «Land Bill», legge della terra – o più precisamente «Legge per il diritto a equo compenso e trasparenza nella acquisizione di terre, riabilitazione e risistemazione» (Right to Fair Compensation and Transparency in Land Acquisition, Rehabilitation and Resettlement Act).
«Questo è un land grab», rapina di terre, tuonava Hazare in quel comizio a fine febbraio: «E’ quello che facevano i britannici. Anzi, questo governo è ancora peggio dei britannici».
La presenza dell’anziano tribuno ha avuto ampia copertura dei media, indiani e internazionali, ma la sua è solo una delle numerose proteste viste a New Delhi nelle ultime settimane, guidate da partiti dell’opposizione, organizzazioni della sinistra, sindacati rurali: come la National Alliance of People’s Movements, alleanza di movimenti popolari che include gli sfollati a causa delle grandi dighe ed è presieduta da Medha Patkar, attivista sociale divenuta simbolo della resistenza contro le dighe sul fiume Narmada. O Ekta Parishad, un sindacato rurale di stampo gandhiano con ampia base popolare. (…)
La Land Bill approvata nel 2013 era il risultato di anni di conflitti e polemiche. Sostituiva una Land Adquisition Bill del 1894, di era coloniale, che definiva in modo molto ampio e vago il concetto di «interesse pubblico» e di fatto dava al governo ampia autorità per requisire terre: secondo una stima circolata nel Parlamento indiano durante il dibattito, in India tra 60 e 65 milioni di persone sono state espulse dalla terra nei 60 anni seguiti all’indipendenza per fare spazio a progetti di sviluppo economico. Insomma, la nuova legge doveva fare giustizia e prevenire conflitti drammatici: il tentativo di bilanciare gli interessi dell’industria e le garanzie per gli agricoltori.
Diceva ad esempio che si può acquisire un certo territorio per un progetto industriale privato solo se almeno l’80 per cento dei proprietari acconsente a vendere la propria terra, che questa andava retribuita due o tre volte più del prezzo di mercato, e che bisogna provvedere alternative economiche alle persone espulse dalla terra.
Il mondo degli affari ha subito bollato la nuova legge come un ostacolo allo sviluppo: dicono che rende impossibile ogni acquisizione di terre, blocca gli investimenti, un nuovo esempio delle «pastoie» governative che impediscono all’economia indiana di decollare. (…) La nuova Land Bill emendata ad esempio sospende la clausola del consenso nel caso di progetti destinati alla difesa, infrastrutture rurali, edilizia residenziale popolare, corridoi industriali e progetti di infrastrutture – cioè quasi tutto.
Un «messaggio positivo al mondo del business», secondo alcuni commenti pubblicati dalla stampa indiana. E non è l’unico, considerato che il governo Modi sta disinvestendo dai programmi di protezione sociale varati dal suo predecessore negli ultimi anni.
Questo articolo è stato pubblicato da Lo Straniero, aprile 2015: leggi qui il testo completo.