Inquinamento nel delta del Niger, Shell tornerà in tribunale

Per la seconda volta in cinque anni, la Royal Dutch Shell è di nuovo trascinata in tribunale a Londra per rispondere dell’inquinamento provocato in Nigeria.

Questa volta a fare causa alla multinazionale petrolifera sono due distretti del Rivers State, stato costiero nel delta del fiume Niger: accusano una lunga serie di sversamenti di greggio a partire dal 1989, imputano a Shell di non aver mai fatto molto per evitarli e per bonificare il territorio, e rivendicano risarcimenti. Si tratta di circa 40mila persone della comunità Ogale, per lo più agricoltori e pescatori della regione Ogoni, e della comunità Bille, per lo più pescatori. In entrambe le zone  il greggio ormai impregna i terreni, i canali e le paludi del delta, lasciando gli abitanti senza acqua potabile e senza la possibilità di coltivare e pescare.

La nuova causa legale è ai preliminari. La notizia di questo mercoledì, 2 marzo, è che il tribunale britannico ha giudicato ammissibile la causa, riferisce la Bbc (Shell non ha commentato la decisione; la sua difesa aveva sostenuto che la questione era comunque di competenza della giustizia nigeriana, tesi che i giudici britannici non hanno accolto).

Nella loro querela, le comunità nigeriane si rifanno a un rapporto diffuso nel novembre scorso da Amnesty International e dal Centre for Environment, Human Rights and development (Cehrd): le due organizzazioni per i diritti umani hanno analizzato quattro siti che Shell affermava di aver bonificato, e hanno constatato che invece sono ancora contaminati. Insomma: la compagnia anglo-olandese non ha ripulito o lo ha fatto solo superficialmente (ne riferivo qui; il rapporto Clean it up: Shell’s false claims about oil spills in the Niger delta si trova qui). Ma gli sversamenti di petrolio e bitume sono routine, e hanno un impatto devastante sui campi, le foreste, la pesca da cui la popolazione del delta dipende per vivere.

La comunità Ogale, che ora chiama Shell in giudizio, si trova nella regione nota come Ogoniland. Il Programma dell’Onu per l’ambiente (Unep) aveva pubblicato nel 2011 il risultato di una lunga indagine nella regione del Ogoniland, in cui documentava gli effetti di decenni di attività petrolifera sull’ambiente e gli abitanti: diceva tra l’altro che l’acqua è contaminata da sottoprodotti del petrolio tra cui il benzene, riconosciuto come carcinogeno. Diceva che è necessaria una bonifica, ma diceva anche che una «riabilitazione sostenibile» della regione richiederà fino a trent’anni. Sempre che cominci. Shell allora si era impegnata ad attuare una bonifica, né poteva fare altrimenti: lo imponeva la sua storia in Ogoniland, una spirale di sfruttamento, inquinamento, rivolte e repressione militare culminata vent’anni fa nell’impiccagione dello scrittore Ken Saro-Wiwa e altri attivisti, vicenda in cui Shell porta una responsabilità morale e politica. La compagnia petrolifera intendeva voltare pagina e tornare a lavorare in Ogoniland: ma quel piano di bonifica, da realizzare in 18 mesi, difficilmente poteva rimediare a un inquinamento così pervasivo come quello descritto dall’Unep.

Anche perché gli sversamenti continuano, grandi e piccoli: un disastro continuato. Un anno fa Amnesty International aveva accusato Shell e Eni di «aver perso il controllo sulle loro operazioni nel delta del Niger» e di non fare nulla per impedire la contaminazione.

Shell, come anche Eni, addossano la responsabilità degli sversamenti al furto di petrolio: falle aperte di proposito negli oleodotti per sottrarre greggio che poi viene raffinato grossolanamente in loco. I sabotaggi sono una realtà, ma non sono l’unica e neppure la principale causa di sversamenti, contestano organizzazioni ambientaliste e per i diritti umani. E comunque, la compagnia petrolifera ha la responsabilità di ripristinare la situazione dopo un incidente, sia pure doloso, contestano. Ed è ciò che sostengono anche i legali che assistono le comunità del delta.

«È scandaloso che quattro anni dopo il rapporto dell’Unep, Shell debba ancora ripulire il petrolio che ha disperso nelle comunità Ogale e Bille», commentava Daniel Leader, legale dello studio che condurrà la nuova causa legale: dice che l’azione in tribunale è l’unico modo per costringere la compagnia petrolifera ad assumersi le sue responsabilità.

Nel gennaio scorso Royal Dutch Shell aveva accettato di pagare 84 milioni di dollari in risarcimenti ai residenti di Bodo, teatro di due sversamenti di proporzioni gigantesche nel 2008 e 2009: parte andrà a risarcimenti personali, 3.300 dollari per ciascuno di circa quindicimila abitanti della comunità, e parte per infrastrutture e bonifiche. Durante quel processo un elemento decisivo fu la rivelazione di documenti aziendali (rapporti interni, e-mail e altre comunicazioni) da cui risultava come Shell fosse ben consapevole che quegli impianti erano ormai obsoleti e non potevano funzionare in sicurezza. Vecchia storia, che però non finisce mai.

@fortimar