Per qualche settimana, in dicembre, il fiume Zayandeh-Rud è tornato a scorrere sotto i famosi ponti di Isfahan, forse la più bella città iraniana. I lungofiume erano affollati, frotte di giovani e di famiglie andavano a passeggio, a giocare con le barchette a pedali, a godersi la vista di tutta quell’acqua dal famoso ponte dei Trentatre archi. Poi, come se qualcuno avesse chiuso un rubinetto, l’acqua è scivolata via ed è riapparso il letto pietroso: le dighe a monte erano state richiuse, per deviare il flusso nei di irrigazione e acquedotti. Chissà se l’acqua è tornata in occasione di Nowruz, il Capodanno persiano che cade proprio oggi. Certo l’acqua che scorre è diventata un lusso raro.
Vedere un fiume a secco della storica Isfahan fa impressione, ma altri importanti fiumi iraniani sono ugualmente ridotti a rigagnoli. La causa principale è la siccità cominciata intorno al 1999 in gran parte dell’Iran (e di tutta la regione che va dalla «mezzaluna fertile» tra il Tigri e l’Eufrate, cioè Siria e Iraq, fino all’Afghanistan verso oriente); nell’Iran centrale la siccità è peggiorata nel 2008, e non da segno di allentarsi. Poi, certo, la gestione delle risorse è critica – nel caso del fiume Zayandeh Rud ad esempio fu molto criticata la decisione dell’ex presidente Mahmoud Ahmadi nejad di eliminare l’Autorità di bacino e spezzettare la giurisdizione sull’uso dell’acqua ai singoli enti locali – ben contenti di poter attingere acqua per le attività delle rispettive zone.
Ma questa è solo una delle crisi di cui soffre l’Iran. In febbraio una tempesta di sabbia ha reso irrespirabile l’aria nelle provincie occidentali del Khuzestan e Ilam, con polveri sospese in dosi fino a 66 volte superiori alle soglie di guardia. I giornali hanno riferito che molti cittadini si sono rivolti agli ospedali con problemi respiratori, le scuole sono state chiuse per parecchi giorni in particolare a Ahwaz, che già nel 2011 era stata definita la città più inquinata al mondo (titolo conteso però, in questi giorni sembra sia passato a Parigi).
Le tempeste di sabbia sono ricorrenti nelle zone semidesertiche del Medio oriente; quando la tempesta si abbatte su zone urbane o industriali succede che la sabbia inglobi particelle inquinanti, fino a formare una foschia densa e soffocante.
In quei giorni di emergenza i deputati del Khuzestan si sono presentati all’Assemblea nazionale, a Tehran, con mascherine sul viso, in segno di solidarietà con i cittadini e di protesta contro il ministero dell’ambiente, che accusano di inazione. C’è da dire che in Iran come ovunque il ministero dell’ambiente ha ben pochi poteri rispetto a quelli del petrolio o dell’industria, ma quando scoppia una crisi si prende tutte le accuse.
E le crisi sono molteplici. C’è la deforestazione, e l’erosione dei suoli che ne consegue. E l’inquinamento urbano, particolarmente acuto a Tehran: la città si stende tra 1.100 e 1.700 metri sul livello del mare ed è circondata da montagne – e soffoca per gli scarichi di oltre 4 milioni di veicoli, oltre che di una cintura industriale sempre più ampia. Massumeh Ebtekar, vicepresidente della repubblica con delega all’ambiente (e da molti anni capo del Dipartimento dell’ambiente), faceva notare di recente che la città è sovrappopolata (supera i 12 milioni di abitanti) e che ci sono centinaia di industrie fuori norma.
Ma la madre di tutte le crisi è l’acqua. La siccità è un fenomeno ciclico in tutta la regione mediorientale, ma ora molti sono convinti che il cambiamento globale del clima abbia aggravato il problema. Negli ultimi dieci anni le precipitazioni sono diminuite tra il 20 e il 40% in tutti i paesi del Medio oriente e nord Africa. Anche in Iran, meno acqua cade dal cielo: ma il consumo idrico è cresciuto in modo costante con il crescere della popolazione, ben oltre la capacità ecologica.
Ne è un segno l’agonia del lago Urmia, nell’Iran nord-occidentale, il più grande lago di acqua salata in Medio oriente: nell’ultimo decennio si è ridotto al 90% della sua superficie, il suo letto scoperto ora è una distesa di sale che il vento solleva e disperde, con grave danno per le terre circostanti e per la salute (gli occhi) delle persone. Si osservi questa mappa, pubblicata da due esperti di ingegneria ambientale (sul quotidiano londinese The Guardian).
Giorni fa il Leader supremo Ali Khamenei ha detto che l’ambiente è una «questione nazionale» e una responsabilità del governo. Insomma, ormai anche i dirigenti dello stato hanno preso nota che il degrado ambientale è a livelli di guardia, e ha un impatto sulle attività economiche oltre che sulla salute. Il ministro per l’energia ha annunciato che gli invasi delle dighe disseminate nel paese oggi contengono poco più di 20 miliardi di metricubi d’acqua, solo il 41 per cento della loro capacità – cioè sono semivuoti. E che nell’anno ora concluso hanno ricevuto il 16% in meno d’acqua dell’anno precedente.
Un segno della crisi è che l’Iran, dopo aver costruito centinaia di dighe negli ultimi 30 anni, sta facendo una discreta marcia indietro, scriveva una corrispondente del Financial Times: cita la diga di Seymareh, la seconda del paese per grandezza, nella povera provincia occidentale del Ilam – ci vollero 17 anni per costruirla e un investimento di 500 milioni di dollari, ma due anni dopo l’inaugurazione è diventata inattiva, ridondante.
Eppure le dighe hanno assorbito il maggiore volume di investimenti nazionali dopo il settore petrolifero, dovevano generare elettricità e favorire l’irrigazione: oggi molti riconoscono che spesso invece hanno contribuito a aggravare problemi ambientali. Il direttore generale dell’ente nazionale per la protezione ambientale, Mohammad Darvish, dice al quotidiano londinese: «Se avessimo usato energie rinnovabili, avremmo speso meno e generato molta più elettricità … senza danneggiare l’ambiente». Un’ammissione notevole.
Nei primi giorni di marzo, quando l’Iran celebrava la «settimana delle risorse naturali», il Leader supremo ha denunciato la «criminale rapina» di beni pubblici come foreste, terre e acqua; ha denunciato l’uso dissennato di queste risorse per il profitto di pochi. Ha parlato di educazione ambientale e di istituire un «piano ambientale nazionale» per tutti i progetti industriali e di costruzioni. Anche tra i dirigenti iraniani si fa strada un senso di urgenza.