Novità nel caso Senhuile, l’impresa agro-alimentare senegalese (di proprietà italiana) che ha ottenuto dallo stato decine di migliaia di ettari di terre nella regione di Ndiaël, nel Senegal settentrionale – togliendo però alla popolazione locale di coltivatori e allevatori tradizionali l’accesso alle terre necessarie a vivere.
La novità è che l’ex amministratore delegato di Senhuile, Benjamin Dummai, licenziato e poi arrestato lo scorso giugno per appropriazione indebita di circa mezzo milione di dollari, ora ha citato in giudizio il Gruppo Finanziario Tampieri di Faenza, holding familiare (produce olio alimentare e energia rinnovabile da biomasse) che possiede il 51% di Senhuile Sa: lo accusa di aumento fittizio del capitale sociale a fini fraudolenti, riciclaggio di denaro, frode ed emissione azionaria fittizia. Lo riferisce l’associazione Re:Common, che ha seguito da vicino questo caso.
A complicare la storia, l’avvocato che difende Dummai è lo stesso che difende 80 lavoratori licenziati mesi fa da Senhuile, suscitando le proteste dei sindacati senegalesi.
Insomma, c’è odore di manipolazioni e illegalità sull’ennesimo caso di land grab africano – qui con responsabilità anche italiana.
Intanto, apprendiamo sempre da Re:Common che il Collettivo per la difesa delle terre dello Ndiaël ha inviato una lettera al presidente della repubblica del Senegal, per chiedere di revocare la concessione su quelle terre: «La concessione dei 20mila ettari occupati da allevatori e coltivatori del Nord del paese alla compagnia Senhuile è stato un errore storico», dicono.
I termini del problema erano stati illustrati, esattamente un anno fa, da una piccola delegazione di abitanti e attivisti rurali è partita dal Ndiaël, venuti in Italia a perorare la propria causa, ospiti dell’associazione Re:Common e di Action Aid Italia. Riprendo da terraterra del 3 marzo 2014:
La vita per gli abitanti del Ndiaël è cambiata nel marzo 2012, quando il presidente senegalese Abdoulaye Wade ha emesso due decreti. Il primo «declassava» una zona di riserva naturale, togliendo i vincoli ambientali da un territorio di 26.550 ettari ora definito di «pubblico interesse» (quindi passibile di usi commerciali). Il secondo decreto stabiliva che di quel territorio, 20mila ettari erano dati in concessione per 50 anni alla società Senhuile per un progetto di coltivazione di semi di girasole; i restanti 6.550 ettari erano invece destinati a trasferirvi i villaggi che si trovano sul terreno della concessione: sono 37 villaggi, circa 9.000 persone – e circa 80 mila capi di bestiame tra mucche, capre e pecore.
Senhuile è una società costituita a Dakar nel luglio 2011; il Gruppo Tampieri è azionista di maggioranza (51 per cento), mentre il restante 49 per cento appartiene a Senéthanol S.A., impresa nata appena un anno prima, luglio 2010, con capitali senegalesi e italiani. (…) Senhuile e Senéthanol sono legate da una complicata struttura di scatole cinesi ricostruita dall’associazione Re:Common in un dossier.
Elhadji Samba Sow rappresenta il Collettivo dei villaggi del Ndiaël. «Erano villaggi legalmente riconosciuti», spiega: «Avevano allacciamenti all’acqua, scuole, alcuni presidi sanitari», e avevano il diritto d’accesso e di uso del territorio per il pascolo e per la raccolta di prodotti spontanei e legname. La vita del Ndiaël ruota attorno al lago de Guiers, la riserva d’acqua più importante della zona e forse di tutto il paese (è una «zona umida» protetta da un trattato internazionale, la Convenzione di Ramsar); il bestiame circola lungo rotte tradizionali che conducono al lago, la cui acqua permette anche una produzione agricola su piccola scala. «Ora hanno pianificato di lasciare 500 metri di terreno incolto tra un villaggio e l’altro, o tra questi e la zona in concessione a Senhuile. Ma chi conosce agricoltura e allevamento tradizionali senegalesi sa che questo non è possibile: equivale a dire che se ne devono andare», insiste Samba Sow.
Con l’arrivo di Senhuile i pastori non hanno più accesso ai pascoli. Le testimonianze raccolte dall’Oakland Institute, organizzazione che ha sede in California e ha condotto una lunga ricerca nel Ndiaël, sono desolanti. «La conseguenza è che adesso il nostro bestiame si vende per pochi soldi a causa della terra occupata da questi uomini potenti con la complicità dello stato», dice un abitante di uno di quei villaggi, Ndialanabé. «Non abbiamo più aree di pascolo. Ci hanno lasciato solo questi pozzi, ma li vogliono togliere. Quando li toglieranno non sapremo più dove prendere l’acqua e saremo costretti a lasciare il nostro villaggio» (Oakland Institute, Surrendering our future. Febbraio 2014).
Infatti le famiglie cominciano a spostarsi in cerca di pascoli, dice Samba Sow: «Così nasceranno conflitti perché pastori e coltivatori entrano in concorrenza sulle scarse terre rimaste». L’allevamento tradizionale rischia di scomparire, aggiunge. Parla di villaggi che non hanno più accesso diretto all’acqua, perché le condutture dovrebbero attraversare il terreno della concessione. E del rischio sanitario per le persone e il bestiame: «Sorvolano con gli aeroplanini a polverizzare prodotti chimici sulle coltivazioni, ma così vanno a finire anche sui villaggi, a pochi metri». (…) L’impresa ha il permesso di attingere l’acqua del lago: ma in una zona arida, irrigare coltivazioni intensive di quell’ampiezza non è sostenibile e il rischio è che la popolazione resti a secco.
I sostenitori del progetto parlano di posti di lavoro per gli abitanti. Solo lavoro precario e alla giornata, ribatte Samba Sow. «Il governo ha mandato la Gendarmerie a proteggere le installazioni di Senhuile. Gendarmi e guardie della compagnia intimidiscono gli abitanti. Noi diciamo che la concessione va cancellata».
In Senegal tre quarti della produzione alimentare è dovuta all’agricoltura «familiare», o su piccola scala, fa notare Elhadji Thierno Cissé, che rappresenta il sindacato rurale senegalese Cncs. E’ vero che il contributo dell’agricoltura al Prodotto interno lordo è basso (era il 20 per cento nel 1980 e il 14 per cento nel 2008). Ma è l’agricoltura su piccola scala che permette al 70 per cento della popolazione senegalese di avere qualche reddito, e copre il 63% del fabbisogno alimentare del paese: «Puntare tutto sui grandi investitori esteri distrugge questa agricoltura», dice Cissé.
Fatou Ngom, di Action Aid Senegal, aggiunge: dal 2000 al 2012 855 mila ettari di terre sono stati dati in concessioni a investitori per lo più stranieri, togliendone l’accesso alle popolazioni locali. È questo che si chiama land grab, accaparramento di terre. Mariam Sow, che si occupa di agroecologia per Enda, stimata organizzazione non governativa dell’Africa occidentale, la definisce «la terza colonizzazione».