Al tribunale di Mombasa, in Kenya, è in corso un processo molti aspetti eccezionale. È la class action lanciata da migliaia di abitanti di Owino Uhuru, una delle poverissime borgate che circondano la città, contro “Metal refinery EPZ”, ditta che lavorava vecchie batterie d’automobile per recuperarne il piombo. I querelanti accusano i responsabili dell’azienda, e gli amministratori pubblici che nel 2007 l’hanno autorizzata a insediarsi nella loro borgata, di aver scaricato piombo e altre sostanze tossiche senza nessuna precauzione, avvelenando l’aria e l’acqua e pregiudicando la salute dei lavoratori e degli abitanti.
Il caso di Owino Uhuru chiama in causa l’industria del recupero di materie prime secondarie. Nella sola Africa si stima che ogni anno 1,2 miliardi di tonnellate di batterie usate vengano “lavorate” per estrarne circa 800mila tonnellate di piombo, una quantità pari all’8% della produzione mondiale di questo metallo (sono dati del Lead Recycling Africa Project, 2016). Ma è un lavoro fatto spesso in modo artigianale, nei cortili di casa, a mani nude, o in stabilimenti come quello della periferia di Mombasa che non adottano alcuna precauzione.
Forza trainante della protesta di Owino Uhuru è Phyllis Omido, una giovane avvocata di Mombasa che nel 2009 era stata assunta dalla EPZ: doveva occuparsi delle “relazioni con la comunità”, e il suo primo incarico è stato preparare un rapporto sull’impatto ambientale dello stabilimento. Con un team di esperti, Phyllis Omido ha cominciato a raccogliere osservazioni e dati. “Vedevamo il fumo nero e denso che usciva dai camini e si diffondeva sulla borgata; i bambini faticavano a respirare, a volte svenivano”, spiega. Quel fumo, diffuso soprattutto la notte perché fosse meno visibile, era pieno di sostanze tossiche e in particolare di piombo. Poi c’erano i reflui liquidi scaricati attraverso un’apertura del muro di cinta, senza alcun trattamento, in rigagnoli che finivano nei corsi d’acqua: “Quindi l’acqua che gli abitanti usavano per lavarsi, fare il bucato, e anche per bere e cucinare, era avvelenata”.
“Nessun essere umano dovrebbe vivere in condizioni simili”, continua l’avvocata (che ho incontrato a Roma il 20 giugno scorso, dove era ospite del Consiglio nazionale forense). Nella relazione consegnata alla direzione aziendale Omido raccomandava di trasferire la fabbrica più lontano dall’abitato; l’azienda ha ignorato le conclusioni. Era il 2009. Proprio in quel periodo il figlio della stessa Phyllis Omido, un bimbo di pochi mesi, si è ammalato di febbri violente di cui nessuno capiva la causa, finché un dirigente dell’azienda ha suggerito che fosse un avvelenamento da piombo. I test clinici hanno confermato: il bimbo aveva nel sangue un livello di piombo allarmante, presumibilmente assorbito con il latte materno.
È allora che la giovane avvocata ha dovuto fare una scelta. L’azienda aveva pagato le esorbitanti spese ospedaliere del suo bambino, spiega: ma lei non se l’è sentita di restare in silenzio, di fonte a un caso di avvelenamento collettivo. Così si è licenziata. Con poche altre persone ha cominciato a incontrare gli abitanti e spiegare come stavano le cose. Ha fondato un gruppo indipendente, il Center for Justice, Governance and Environmental Action.
Non è stata una battaglia facile, racconta. La raffineria EPZ era proprietà di un esponente del governo e di due imprenditori indiani, e si era insediata nello slum di Mombasa su invito del governo, spiega Omido: “La presentavano come un ‘trasferimento di tecnologie’. Dicevano che la fabbrica avrebbe portato posti di lavoro in una delle zone più povere della città. Quello che non dicevano è che quella fonderia era tecnologia obsoleta, ormai bandita in Europa e anche in Asia, e nessun altro Paese l’avrebbe autorizzata”, dice Phyllis Omido. Il gruppo di legali-attivisti ha cominciato a raccogliere testimonianze, documentazione medica, dati. Hanno fatto analizzare il sangue di alcuni bambini della borgata: tutti avevano livelli di piombo quasi incredibili, fino a 37 microgrammi per decilitro di sangue (la soglia considerata d’attenzione negli Stati Uniti è 10 microgrammi per decilitro). Hanno ottenuto che i centri di salute del governo avviassero un’indagine. Omido racconta che spesso era lei ad accompagnare abitanti, magari analfabeti, a fare le analisi. A volte i medici ripetevano i test perché non potevano credere a ciò che trovavano.
“Uhuru è un quartiere molto povero, e quando ha aperto la fabbrica tutti sono andati a lavorarci”, spiega Omido. I lavoratori erano i primi esposti: come unica protezione ricevevano un paio di guanti di cotone al mese, che in pochi giorni cadevano a brandelli; allora continuavano a lavorare acidi e piombo a mani nude. Però vedevano i dirigenti entrare nello stabilimento con tute protettive totali. Alcuni lavoratori sono morti, altri si stanno spegnendo.
Hanno cominciato a morire le galline che razzolavano tra le baracche di Owino Uhuru, libere di beccare e bere nei rigagnoli: “Le facevamo analizzare e i medici dicevano di non mangiarle, erano avvelenate”. Erano avvelenati anche i pesci degli stagni, cioè la principale fonte di proteine della comunità.
C’era abbastanza per imporre la chiusura della fabbrica, sostiene Omido: ma l’ente ambientale del governo (la National Environment Management Agency) non ha fatto nulla. Sono cominciate quindi le proteste, lettere, manifestazioni pacifiche, blocchi stradali.
(…) La battaglia di Owino Uhuru non è finita. Innanzitutto perché va avanti il procedimento legale: sono passati due anni da quando le denunce e i dati clinici raccolti in questi anni sono confluiti nella “class action”, e finalmente nel marzo del 2018 presso il tribunale di Mombasa è cominciato il dibattimento – che però si trascina. I querelanti chiedono la bonifica e 1,6 miliardi di scellini kenyani (13 milioni di euro) in risarcimenti. Resta aperta anche la battaglia per l’accesso ai medicinali e “per ripristinare ciò che gli abitanti avevano prima: la possibilità di pescare, di attingere acqua, di avere accesso ai beni naturali e il diritto al proprio stile di vita”.
Resta anche una battaglia più generale per la conoscenza, l’informazione e la trasparenza, insiste Phyllis Omido (che nel 2015 ha ricevuto il premio ambientale della Fondazione Goldman, detto anche il “Nobel verde”). “Quella fonderia non avrebbe mai dovuto essere autorizzata, neppure per le leggi del Kenya”, spiega, e le autorità governative ne erano consapevoli. “Ma questo gli abitanti non potevano saperlo. Non si tratta solo di Owino Uhuru, vogliamo riaffermare il diritto di tutti i cittadini ad avere le informazioni necessarie a capire cosa succede, ad esempio quando una fabbrica si insedia accanto alle loro case. Il diritto alla salute è di tutti. Per questo dico che è una questione di diritti e di giustizia ambientale”.
(L’articolo completo è su Altreconomia del 1 settembre 2018 )