Gli abiti che avete addosso sono stati cuciti in un posto molto simile a Katunayaka, alle porte di Colombo, Sri Lanka. Siamo in una periferia urbana, a due passi dall’aeroporto internazionale e soprattutto accanto a una “zona speciale per l’esportazione”, un’ottantina di stabilimenti in cui lavorano quasi 40mila persone. Qualche azienda di componenti elettroniche, manifatture varie, ma per lo più sono fabbriche di abbigliamento che lavorano per committenti stranieri: abiti che saranno venduti in tutta Europa e in America, spesso con marche molto note.
Il villaggio dall’aspetto rurale dunque è un sobborgo operaio. Richiama manodopera dalle campagne più lontane: «Sono per lo più donne, spesso molto giovani; arrivano da località distanti anche più di un centinaio di chilometri». Chamila Tushari lavora in questo sobborgo da una ventina d’anni. Coordina il Collettivo Dabindu, che significa “goccia di sudore”, organizzazione un po’ sindacale, un po’ sociale. «Le operaie lavorano tra 12 e 14 ore al giorno, poi spendono buona parte del salario per pagarsi una stanza e il cibo».
Le lavoratrici di Katunayaka però alimentano una delle prime industrie di Sri Lanka. Tessili e abbigliamento sono la prima voce dell’export del paese, e la seconda fonte di valuta straniera (la prima sono le rimesse degli emigranti).
L’industria dell’abbigliamento è un sistema globale in cui da un lato ci sono imprese di paesi industrializzati che vendono abiti e abbigliamento sportivo, di solito con marchi noti; dall’altro lato ci sono i produttori di quegli abiti. Le lavoratrici di Katunayake stanno all’estremo di questo sistema.
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