I «testimoni dell’accusa» sono un movimento studentesco, un’organizzazione popolare per il diritto alla terra, un sindacato, una rete di radio comunitarie e di media indipendenti, associazioni di giornalisti, accademici, gruppi per i diritti umani. Per due giorni hanno presentato dati e documenti per spiegare come in Messico la libertà di espressione, il diritto all’informazione, e spesso anche la sicurezza di giornalisti e reporter, siano sistematicamente violati. Si rivolgevano al Tribunale Permanente dei Popoli, l’istituzione fondata in Italia negli anni ’70 da Lelio Basso, che in settembre ha tenuto a Città del Messico un’udienza su «Disinformazione, censura e violenza contro i comunicatori»: per richiamare l’attenzione sul nesso tra controllo dell’informazione e potere politico nel paese.
Sullo sfondo, una violenza politica e sociale allarmante: mentre si svolgeva questa udienza, le cronache erano piene di uno scandalo ambientale (un’industria mineraria che ha deliberatamente contaminato il fiume Sonora con i suoi reflui), una oscura sparatoria (dove risulta che la polizia ha ucciso a freddo alcuni presunti criminali), un deputato all’Assemblea nazionale ucciso nel nord del paese. E stava per scoppiare il caso più impressionante, un gruppo di 43 studenti scomparsi nello stato di Guerrero: fermati dalla polizia durante una manifestazione, nessuno sa dove siano né se siano ancora vivi, mentre in zona è stata trovata una fossa comune con 28 cadaveri ancora da identificare. Tanto plateale la responsabilità della polizia che il governo federale ha mandato l’esercito a disarmarla, mentre un quotidiano indipendente parla di «crimine di stato», un episodio di «guerra sporca».
Anche sui mezzi di comunicazione di massa si giocano guerre sporche. Non solo perché giornalisti e lavoratori dell’informazione sono nel mirino, in particolare nelle zone periferiche del paese: durante l’udienza del Tribunale Permanente dei Popoli [a cui ho partecipato come membro della giuria], è stato riferito che tra il 2000 e il 2014 sono stati uccisi 79 giornalisti, e centinaia hanno subito attacchi fisici e/o minacce. Nel solo 2013 l’associazione Articulo 19 ha documentato 330 casi di aggressioni contro giornalisti e altri lavoratori dell’informazione, e già 201 casi nei primi otto mesi di quest’anno. Quando i responsabili di tali aggressioni sono identificati, in sei casi su 10 appartengono a istituzioni dello stato, mentre al crimine organizzato è riconducibile il 13% dei casi. Va detto che oltre 90 per cento dei casi resteranno impuniti.
Impunità e corruzione generalizzata sono tra le cause strutturali di tanta violenza contro i comunicatori, ha detto Sayda Chiñas, della rete «Periodistas de a Piè» (più o meno «giornalisti dal basso»). Strutturale è anche la relazione di complicità tra la stampa e il potere: di fatto, accusano i «Periodistas de a piè», in molte zone del paese alcune autorità, e alcuni signori del crimine, decidono cosa va pubblicato e cosa no; i direttori dei giornali sono acquiescenti e chi non si attiene alla regola paga il prezzo. I giornalisti uccisi dall’inizio dell’anno (negli stati di Oaxaca, Zacatecas e Veracruz) scrivevano di un capo della polizia preso in flagrante ruberia, di cartelli criminali, di notabili coinvolti in affari loschi.
Il duopolio che domina i media. Tutto questo rimanda alla partita di potere che si gioca sui mass media. In primo luogo, la concentrazione. In un paese dove l’opinione pubblica si forma sulla tv, l’etere è occupato da due gruppi televisivi, Televisa e Tv Azteca: insieme fanno il 92 per cento dell’audience nazionale, possiedono il 96% delle tv commerciali con il 94% delle frequenze e si spartiscono il 99% degli introiti pubblicitari. Televisa (che fino alla liberalizzazione degli anni ’90 era l’unica tv nazionale) e TvAzteca dominano anche le frequenze radio e l’editoria periodica, giornali e magazine. Le voci indipendenti sono molto poche.
Il parlamento messicano ha approvato l’anno scorso una riforma costituzionale per regolamentare le telecomunicazioni: ma anche se questa pone un tetto alla concentrazione dei media e sancisce principi importanti come i diritti degli utenti, o l’informazione come servizio pubblico, la legge secondaria approvata nel luglio 2014 dallo stesso parlamento non ha affatto smembrato i monopoli. Né ha facilitato le cose per le radio comunitarie (definite come servizio di valore sociale) e le radio libere in genere.
Ha invece varato un regime di controllo delle telecomunicazioni e di attacco alla privacy dei cittadini che sembra realizzare le peggiori previsioni di un Edward Snowden: lo spiega bene questo video, diffuso dall’Associazione messicana per il diritto all’informazione.
Il governo controlla i media – o i media controllano il governo? Il Messico è forse l’unico paese dove un vasto movimento sociale, soprattutto di giovani, sia sorto proprio per contestare la manipolazione dei mass media.
Il movimento #YoSoy132 è nato nelle università di Città del Messico nel maggio 2012, in piena campagne per le presidenziali, e la scintilla è stato un episodio di contestazione contro l’allora candidato del Pri (Partito rivoluzionario istituzionale, che per decenni è stato partito unico e continua a dominare la vita politica messicana): gli studenti accusavano le tv di deformare i fatti presentandoli come teppisti. Poi sono andati ben oltre. La principale accusa ripetuta in decine di assemblee o nelle manifestazioni davanti alla sede di Televisa, è che il candidato (oggi presidente) Enrique Peña Nieto sia stato «costruito» dalle tv ben prima della competizione elettorale.
La chiamano «imposizione mediatica»: il dirigente del Pri presentato sotto luce favorevole nei notiziari, i sondaggi manipolati, le immagini patinate, lo spazio negato alle voci critiche. Parlano di un accordo dietro le quinte, e di milioni di pesos spesi in una gigantesca operazione mediatica. Nella loro testimonianza al Tribunale tre giovani donne, rappresentanti del #YoSoy132, hanno concluso denunciando «un chiaro appoggio di Televisa e Tv Azteca, ovvero del duopolio che domina il Messico, alla candidatura di Enrique Peña Nieto».
Il potere mediatico non passa però solo attraverso i notiziari: telenovelas, talk show, spot pubblicitari, tutto concorre a costruire «un immaginario sociale conservatore», accusano le rappresentanti del #YoSoy132. Riecheggiano accenti sessantottini nei loro discorsi: la fabbrica del consenso, «attenzione: la tv mente».
Sicari a mezzo tv. La manipolazione diventa sfacciata quando sono in gioco conflitti sociali e movimenti popolari. Un esempio ampiamente illustrato al Tribunale dei Popoli è il conflitto che si trascina da anni a Atenco, municipio rurale alle porte di Città del Messico dove il governo vuole costruire un nuovo aeroporto per la capitale – gli abitanti però non vogliono cedere la terra e hanno formato un «Fronte popolare in difesa della terra».
Un video mostrato al Tribunale riprende i notiziari di un certo giorno del 2006, quando la polizia è stata mandata a sgomberare la piazza di Atenco dai suoi venditori ambulanti, e soprattutto dai simpatizzanti del Fronte per la terra: era un momento caldo del conflitto. Nelle cronache tv i contestatori sono «vandali, ricattatori, macheteros, destabilizzatori, intransigenti, ignoranti e contrari al progresso»: mai che i diretti interessati abbiano l’opportunità di esprimere le loro ragioni.
Quando scoppiano gli scontri, una scena di pobladores che aggrediscono un poliziotto è mandata in onda in modo martellante – ma i notiziari non si riferiscono quanto accade nelle stesse ore: perquisizioni a tappeto, arresti di massa, polizia che spara. Si sente un commentatore televisivo esclamare «è una vergogna», «cosa aspetta la polizia a riportare legge e ordine»: senza mai indagare ragioni e cause del confitto.
Reporter indipendenti hanno poi documentato che quel giorno la polizia ha fermato decine di persone portandole nelle caserme, giovani donne sono state violentate, molti pestati. «Il nostro movimento è stato criminalizzato», ha detto al Tribunale una rappresentante del Fronte popolare di Atenco. Ma questo è solo un esempio.
Il Messico è percorso da conflitti sociali, questioni ambientali, vertenze di lavoro, comunità locali che si battono per la terra o contro il narcotraffico – ma è molto raro che abbiano voce. Molto facile invece che siano presentati come teppisti. E qui il cerchio si chiude.
Guerre sporche. Non per nulla, altre udienze organizzate dalla sezione messicana del Tribunale permanente dei popoli trattavano di migranti, di femminicidio (parola orribile, ma è stata coniata proprio in Messico per indicare una precisa ondata di violenza contro le donne), di ambiente, della vita rurale e sovranità alimentare, dei diritti dei lavoratori, e della «guerra al narcotraffico» che tra il 2006 e il 2012 ha prodotto qualcosa come 50mila uccisioni extragiudiziarie e oltre 18mila desaparecidos.
Violazioni che il Tribunale lega all’impatto dei trattati di libero commercio sull’economia e sulla società messicana (la sessione conclusiva, su «Libero commercio, violenza, impunità e diritti dei popoli», si terrà in novembre a Città del Messico).
(Questo post è stato pubblicato l’8 ottobre 2014 su Pagina99.it)