L’ultima volta risale a dicembre: la polizia ha aperto il fuoco sugli abitanti alcuni villaggi presso Monywa, in Myanmar (Birmania), che protestavano contro la costruzione di una miniera. Una donna è morta, molti altri sono rimasti feriti.
Non erano le prime proteste in quella regione del Myanmar centrale, dove un complesso di miniere è attivo fin dagli anni ’80. Né era la prima volta che le forze di sicurezza rispondevano con la forza: due anni fa la polizia ha usato perfino il fosforo bianco, un esplosivo altamente tossico il cui uso è vietato dalle convenzioni internazionali, considerato un crimine di guerra. Un centinaio di persone sono rimaste ferite, molti ustionati in modo orribile, qualcuno menomato a vita.
Di tutta questa violenza però hanno beneficiato tranquillamente due società minerarie straniere – una canadese, l’altra cinese – che hanno tratto enormi profitti dal rame.
La collusione tra compagnie minerarie e autorità di Myanmar è ben documentata da Amnesty International, che ha appena pubblicato un rapporto su quella miniera. Una storia che dovrebbe mettere in allarme chi guarda il Myanmar, con i suoi grandi giacimenti minerari ancora da sfruttare, come una nuova frontiera per investire in materie prime.
Il caso del complesso minerario di Monywa, e la miniera di Letpadaung ora in costruzione, illustra in modo chiaro l’intreccio tra gli interessi economici di aziende straniere e il potere militare in Myanmar (solo nel 2011 il paese è tornato a un governo formalmente civile, e ha intrapreso una transizione democratica per la verità ancora molto incerta).
Monywa è una cittadina sulla riva di un fiume a 130 chilometri da Mandalay, l’antica capitale, ed è circondata da villaggi agricoli: siamo nel cuore rurale del paese. È però anche zona di giacimenti di rame e negli anni ’90 migliaia di agricoltori sono stati costretti a lasciare la terra a forza, interi villaggi sgomberati per fare spazio alle prime due miniere. Proprio allora entrava in scena una società canadese, la Ivanhoe Mines Lts, che nel 1996 ha stipulato una joint venture con una compagnia mineraria di stato (dei militari) per investire nel Progetto Monywa. La società canadese «sapeva che il suo investimento avrebbe portato agli sgomberi, ma non ha fatto nulla. Ha approfittato di oltre un decennio di estrazione di rame senza tentare di occuparsi delle migliaia di persone lasciate sul lastrico», osserva Amnesty nel suo rapporto (Open for Business? Corporate Crime and Abuses at Myanmar copper mine).
Ivanhoe Mines ha gestito le miniere fino al 2007, quando ha deciso di «disinvestire» da Myanmar (e di cambiare nome in Turquoise Hill Resources, società in seguito acquisita dal gigante minerario Rio Tinto). Il «disinvestimento» è stata un’operazione assai opaca, condotta attraverso un trust con sede nelle Virgin Islands britanniche. Secondo le informazioni raccolte da Amnesty, la vendita è andata a beneficio di alti militari: e questo mentre erano ancora in vigore le sanzioni internazionali (e in particolare quelle decretate dal Regno unito) contro la giunta militare che governava Myanmar. In altre parole, c’è il forte sospetto che la società canadese abbia violato le sanzioni internazionali. Certo, la nuova Turquoise Hill Co. afferma di non saperne nulla.
Una nuova ondata di sgomberi a forza è cominciata nel 2011 nella zona di Monywa, per espandere le attività e scavare la nuova miniera di Letpadaung. Questa volta è coinvolta una compagnia mineraria cinese, Wanbao, che gestisce le miniere in joint venture con la Union of Myanmar Economic Holdings (Umehl), «braccio economico» dell’esercito di Myanmar.
La compagnia cinese ha ancora meno remore di quella canadese e partecipa direttamente alla repressione delle proteste. Ha fornito i bulldozer usati per spianare i campi e i raccolti man mano che nuovi villaggi venivano evacuati. Nel novembre 2012, quando le forze di sicurezza hanno sparato fosforo bianco su monaci e abitanti che protestavano per l’inquinamento, parte dell’attacco è stato lanciato dall’interno del comprensorio della Wanbao.
La compagnia cinese ha respinto le accuse di Amnesty, anche se un suo funzionario ha ammesso che “la democratizzazione ha complicato l’avvio del progetto” (ha detto proprio così al Financial Times). Chiamata in causa, l’azienda si difende dicendo che perfino la signora Aung San Suu Kyi ha dato l’assenso alle attività minerarie a Monywa.
In effetti dopo quel selvaggio attacco sui manifestanti la leader dell’opposizione birmana aveva ordinato un’indagine sulla situazione nella zona e l’impatto delle miniere; il rapporto aveva confermato l’uso di fosforo bianco, ma aveva raccomandato che il progetto continuasse, per non rompere i contratti con la compagnia cinese.
Aveva però anche raccomandato una serie di misure per risarcire la popolazione, implementare misure di salvaguardia ambientale per proteggere le fonti di sopravvivenza degli abitanti, riferisce Mizzima News, giornale indipendente birmano. Secondo un nuovo contratto stipulato allora, la Wanbao avrebbe accantonato 1 milione di dollari ogni anno prima di entrare in produzione, e il 2% dei profitti annuo a produzione avviata, per finanziare progetti sociali nella zona. Non è avvenuto. Quando però un centro studi su “business e diritti umani” ha organizzato un simposio, il 17 febbraio nella capitale birmana Napidaw, e invitato le aziende straniere operanti in Myanmar a rispondere sulle proprie politiche di sviluppo (solo 24 su 108 hanno risposto), la Wanbao ha usato il sondaggio per magnificare i suoi sforzi per lo sviluppo della comunità locale, inclusi i risarcimenti per le terre – lo riferisce sempre Mizzima News.
Amnesty international ora chiede di fermare la costruzione della miniera di Letpadaung, almeno finché non saranno stati indagati gli abusi commessi, e finché la popolazione sfollata sarà stata risistemata in modo degno. Chiede anche al Canada e alla Cina di indagare sulle attività di Ivanhoe Mines e di Wanbao. Sarebbe un gesto dovuto: non basta additare un governo autoritario, quando ci sono aziende straniere felici di trarne vantaggio.