Shell ha vinto un round. Ma ecco perché scavare petrolio nell’Artico resta difficile

 Shell ha vinto un round. L’amministrazione Obama ha concesso l’ultimo permesso che ancora mancava per cominciare a scavare un pozzo petrolifero nel mare Artico, al largo dell’Alaska, contro l’opposizione di un ampio movimento ambientalista. La questione però non è chiusa: scavare l’Artico è un’impresa pazzesca da molti punti di vista, ambientale ma non solo.

Shell ha già speso 7 miliardi di dollari e quasi dieci anni di sforzi nel tentativo di estrarre petrolio nel mar di Chukchi, al largo della costa nord-occidentale dell’Alaska – senza però aver ancora aperto un solo pozzo.

Ora la compagnia anglo-olandese spera di riuscire a scavare il primo pozzo entro la fine dell’estate. Sul posto c’è già la nave per trivellazioni Polar Pioneer (operata dalla compagnia Transocean): sta scavando dal 30 luglio, ma gli mancava appunto il permesso di raggiungere la profondità necessaria a toccare il giacimento, cioè 2.400 metri (8.000 piedi). L’ente federale Usa responsabile per la sicurezza offshore (il Bureau of Safety and Environmental Enforcement) ha concesso quest’ultimo nullaosta lunedì pomeriggio, dopo una revisione tecnica e dopo che sul posto è arrivata anche la nave che porta la speciale struttura “tappo”, da usare per sigillare il pozzo in caso di esplosione e/o perdita.

Una seconda nave per trivellazioni, la Noble Discoverer (della Noble Corporation) è in posizione a nove miglia dalla prima. L’obiettivo dichiarato da Shell infatti è aprire due pozzi esplorativi entro l’estate. Ma deve aspettare che la prima finisca il lavoro, perché le norme di sicurezza vietano di procedere a perforazioni contemporanee a meno di 15 miglia una dall’altra, per salvaguardare la popolazione di trichechi e tutta la fauna polare. In ogni caso, il secondo pozzo avrà bisogno di una ulteriore autorizzazione.

Considerato che le condizioni meteo permettono di lavorare in quelle acque solo tra luglio e settembre, se ne riparlerà la prossima stagione.

Oggi Shell è l’unica compagnia petrolifera che sta tentando di aprire pozzi nell’Artico al largo dell’Alaska (altre compagnie stanno operando al largo della Norvegia e della Russia). Aveva già lavorato in quei mari (quattro pozzi esplorativi scavati tra il 1989 e il ’91), ma con le tecnologie di allora era un’estrazione troppo costosa. A metà anni ‘2000 è tornata alla carica, nel 2008 ha comprato una concessione nella zona chiamata Burger Prospect. Si può immaginare che le altre compagnie stiano a guardare: se Shell avrà successo potrebbe aprire una strada.

Ma resta un’impresa difficile: anche in estate il mare di Chukchi è spazzato da venti e tempeste improvvise, e iceberg galleggianti alti anche 10 metri. Nel 2012 la piattaforma Kulluk, che lavorava per Shell, è andata alla deriva con a bordo 550 mila litri di carburante. L’incidente ha messo fine ai tentativi per quella stagione e quella successiva.

Quest’anno però Shell è tornata alla carica. In marzo la portavoce Curtis Smith ha detto che la compagnia ha imparato dall’accaduto e ora ha sistemi e procedure di sicurezza migliori (prendo la citazione da un articolo del National Geographic, che insiste sulle difficoltà tecniche dell’impresa). Il sito web della compagnia petrolifera ha bellissime illustrazioi per dire che dialoga con le popolazioni native, protegge la biodiversità, e ha ottimi sistemi di sicurezza – e che comunque il futuro dell’energia è nell’Artico.

I rischi però restano alti. Il secondo rapporto di valutazione del rischio ambientale, pubblicato alla fine del 2014 dal Bureau of Ocean Energy Management (Boem) del Dipartimento agli interni Usa, prevede il 75% di probabilità di un grande sversamento di greggio nell’Artico su un periodo di 70 anni. Aggiunge che un incidente come quello avvenuto nel 2010 alla Deepwater Horizon nel Golfo del Messico è «improbabile», ma se avvenisse sarebbe a «alto impatto».

Ne vale la pena?  Il giacimento là racchiuso è stimato in 4,3 miliardi di barili estraibili, non poco. In generale l’Artico racchiude qualcosa come il 13 per cento delle riserve di petrolio ancora non scoperte e forse un terzo del gas naturale, di cui l’84 per cento è offshore: è la stima fatta nel 2008 dal Us Geological Survey (quello studio è anche l’unico fatto finora sul potenziale di idrocarburi nell’Artico compiuto – o almeno reso pubblico). Per questo l’Artico è sempre citato come elemento essenziale della “base energetica” degli Usa, fin dai tempi dell’amministrazione di George W. Bush (ma anche da quella Obama, come si vede).

La razionalità economica di scavare nell’Artico però è discutibile. Il prezzo del petrolio ha ripreso a scendere (il Brent si vendeva a 114 dollari per barile nel giugno 2014, era crollato a 46 $ in gennaio 2015; è poi risalito fino a 66 $ in maggio, tanto che fior di esperti dicevano che ormai poteva solo risalire: invece la prima settimana di agosto era di nuovo sceso a 49 $ per barile). L’industria dello shale oil americano (il petrolio di scisto, estratto con la “fratturazione idraulica”, o fracking) è sotto pressione, dopo il boom degli anni passati: è un petrolio più costoso da estrarre e rischia di andare fuori mercato (non che sia finita, ma è probabile che sopravviveranno solo i produttori che riescono a tagliare i costi).

Le grandi compagnie petrolifere “convenzionali” fanno calcoli più a lungo termine, ma hanno messo in attesa nuovi progetti: in particolari quelli dove l’estrazione è più costosa, come da sabbie bituminose, o le perforazioni off shore a grande profondità, e quelle nell’Artico. I fattori in gioco sono diversi, dal rallentamento dell’economia in Cina alla politica saudita alla fine delle sanzioni all’Iran: come spiega qui Michael Klare, l’industria petrolifera dovrà attrezzarsi a trasformazioni profonde.

Per Shell, l’Artico è una scommessa a lungo termine: anche se riuscirà a scavare il suo primo pozzo esplorativo quest’estate, non si prevede che la zona entri in produzione prima del 2030. Questo significa anche che sarà la futura amministrazione a prendere la decisione definitiva sui pozzi nell’Artico (la candidata democratica Hillary Clinton ha espresso perplessità, ma è una partita tutta da giocare – qui il punto, da Politico.com).

Intanto l’amministrazione Obama lancia un segnale contraddittorio. Appena due settimane fa lo stesso presidente ha annunciato una “strategia per l’energia pulita” che per la prima volta impone limiti alle emissioni di anidride carbonica delle centrali elettriche e promuove energie rinnovabili. Non solo, Barack Obama andrà tra due settimane proprio in Alaska per parlare di cambiamento del clima. E però permette a una compagnia petrolifera di scavare pozzi in una “frontiera” del cambiamento climatico, dove gli equilibri ecologici sono più delicati.

«Profondamente ipocrita», ha detto Annie Leonard di Greenpeace Usa. Dello stesso tenore i commenti di Friends of the Earth, Sierra Club, e ogni organizzazione ambientalista: ipocrita, contraddittorio, «sacrifica il mar di Chukchi agli interessi del petrolio». Tutti promettono di continuare la battaglia contro i pozzi petroliferi nell’Artico.

@fortimar