Sviluppo sostenibile, o operazione di marketing? Se la lotta alla povertà ha un copyright

Ora che l’Assemblea generale delle Nazioni unite è conclusa, possiamo sollevare qualche dubbio sugli «Obiettivi per lo sviluppo sostenibile»? E sull’operazione di marketing che li accompagna.

Intendiamoci: i 17 obiettivi elaborati dalle Nazioni unite e presentati a New York nel corso di un «Summit sullo sviluppo sostenibile» sono importanti. Sconfiggere la povertà, eradicare la fame, promuovere sanità, istruzione, eguaglianza di genere, accesso all’acqua potabile, energia pulita, lavoro, ridurre le diseguaglianze, fermare il cambiamento del clima: e chi oserebbe non essere d’accordo? Molto si potrebbe discutere o aggiungere, a volte sono obiettivi vaghi, ma almeno definiscono la «povertà» in modo ampio: non si tratta solo di reddito (la Banca mondiale ha appena alzato la «soglia» da 1,25 a 1,90 dollari al giorno), ma di avere accesso a risorse naturali e a servizi, istruzione e salute, ambiente sano, avere voce in capitolo alle scelte che condizionano la propria vita, vivere in sistemi inclusivi.

La nuova Agenda dell’Onu detta obiettivi da realizzare entro quindici anni, il 2030. Non c’è dubbio: ne risulterebbe un pianeta migliore.

Qual’è il problema, dunque?

Primo, che i nuovi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile assomigliano molto a una lista di pii desideri. Prendono il posto di un’altra lista, i Millennium Development Goal: gli «Obiettivi di sviluppo del millennio», varati nel 2000, dovevano sconfiggere povertà, fame diseguaglianze malattie eccetera entro il 2015. Il bilancio è problematico, ma è sempre giusto rilanciare.

Il fatto è che mentre l’Onu enuncia la sua Agenda , sul pianeta divampano conflitti che azzerano qualunque «sviluppo sostenibile». Per guardare solo vicino a noi, l’Unicef dice che 13 milioni di bambini sono fuori dalla scuola in Medio oriente e Nord Africa a causa dei conflitti in Siria, Libia, Yemen, Iraq, dove migliaia di scuole sono inagibili perché distrutte o occupate da forze armate o da sfollati. Senza parlare di servizi sanitari, acqua potabile, e tutto il resto. E degli sfollati, e le ondate di profughi in fuga. Già: anche il bilancio finale dell’Onu sugli “Obiettivi di sviluppo del millennio” dice che «i conflitti restano la maggiore minaccia allo sviluppo umano». Si pensi: i 60 milioni di sfollati e profughi registrati dalle Nazioni unite a fine 2014 sono il numero più alto dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Bisogna anche dire che da vent’anni le agenzie dell’Onu elaborano piani d’azione per lo sviluppo umano, l’empowerment delle donne, lo sviluppo sociale e sostenibile e quant’altro, raccomandano di investire in sanità e istruzione – peccato che nel frattempo gli stati tagliano la spesa pubblica, magari spinti da aggiustamenti strutturali.

 

Una questione di potere

Il punto è proprio questo: da tante belle enunciazioni sembra che la povertà sia una catastrofe naturale. Fatalità. Che non abbia storia, passata (dominazione coloniale, schiavismo) o più recente (pensate agli aggiustamenti strutturali imposti in Africa e America Latina a partire dagli anni ’80, che non hanno salvato nessuna economia ma ne hanno affondate parecchie). Sembra una povertà senza cause strutturali: gli squilibri del commercio internazionale, il prezzo delle materie prime che viene fissato in qualche City e fa vivere o affondare interi paesi, le speculazioni sul prezzo delle derrate alimentari.  O la corsa a deforestare, aprire miniere, saccheggiare risorse naturali. O anche la politica di rapina di molte élites locali.

Una volta tutto ciò si chiamava «scambio diseguale». La ricchezza di alcuni si fonda sullo sfruttamento e povertà di altri: ci voleva Papa Francesco per ricordarlo?

«Gli Obiettivi di sviluppo dell’Onu non centrano il punto: è tutta una questione di potere», commentava giorni fa il direttore di Global Justice Now, una delle tante organizzazioni che fa campagna per la giustizia sociale su scala planetaria. Fa notare tra l’altro che l’Agenda dell’Onu non nomina mai le imprese transnazionali, che pure hanno un potere determinante nell’indirizzare investimenti e scelte economiche di molti paesi “in via di sviluppo”. Ma non è un caso, dice: «Nel business della lotta alla povertà, le imprese e i super-ricchi hanno smesso di essere un problema, ora sono i partner. Come saranno finanziati gli “Obiettivi di sviluppo sostenibile”? (…) Dalle grandi imprese, ovviamente». (Ecco perché c’è sempre di mezzo Bill Gates).

È il modello charity: gli investimenti pubblici crollano, ma subentrano imprese private a gestire (con il sostegno o la delega degli stati) servizi, sanità, istruzione, alimentazione, acqua – e anche gli aiuti ai paesi poveri.

 

Il copyright della lotta alla povertà

A proposito: perché c’è un copyright sugli «Obiettivi per lo sviluppo sostenibile»? (devo la segnalazione a questo articolo del Global Policy Watch, un’altra rete di monitoraggio sulle politiche delle organizzazioni internazionali).

Proprio così: le 18 icone che abbiamo visto sul sito dell’Onu si ritrovano qui, sul sito titolato The Global Goals, registrato da una charity registrata nel Regno unito con il nome Project Everyone. Ci troverete anche un video intitolato We the people, for the Global Goals, dove le celebrità mobilitate dall’Onu esortano a sconfiggere la povertà.

In questa operazione mediatica pare proprio che i “Global Goals”, Obiettivi Globali (lo «sviluppo sostenibile» è caduto) siano una iniziativa privata. Infatti, se cliccherete su “terms and conditions”, giù in fondo alla pagina, scoprirete che tutto il materiale è soggetto a copyright: le icone diffuse dall’Onu, “basta povertà”, “zero fame”, tutto. Strano che un’Agenda per lo sviluppo sia soggetta a proprietà intellettuale – e ancor più che il titolare dei diritti sia una charity, non l’Onu.

Ma forse è un’indicazione: la via di marketing alla lotta alla povertà.

 

@fortimar