Il lago Boeung Kak, in un sobborgo settentrionale di Phnom Penh, illustra bene come la speculazione immobiliare stia trasformando la capitale della Cambogia, divorando terreni agricoli e costringendo decine di migliaia di poveri urbani a sfollare. Ma illustra anche come un programma della Banca Mondiale ha di fatto aiutato un land grab di grandi proporzioni, in un paese dove l’80 per cento della popolazione sopravvive di agricoltura e pesca, cioè dipende in tutto dalla terra.
Il lago prosciugato dai palazzinari
Boeung Kak era parte di un’ampia area umida collegata al fiume Tonle Sap, affluente del Mekong. Il lago in sé misurava 90 ettari ed era circondato da una zona molto popolata e fitta di case, negozi e baraccopoli.
Ora però il lago non c’è più. Nella capitale cambogiana in piena espansione, quella era una zona molto appetibile per lo «sviluppo urbano» e nel febbraio 2007 il governo ha dato l’area in concessione a una compagnia privata, Shukaku Inc, diretta da Lao Meng Khin, un senatore a quanto pare molto vicino al presidente Hun Sen. La Shukaku progetta di costruire un sobborgo lussuoso con belle ville, hotel e spazi per uffici; ha avuto l’area (in totale 133 ettari) in affitto per 99 anni al costo di 79 milioni di dollari.
Intorno a quel lago però abitavano oltre 20 mila persone, che nelle intenzioni degli “sviluppatori” dovevano andarsene. Nel 2008 il governo infatti ha dichiarato la zona «terreno pubblico di stato»: gli abitanti sono diventati all’istante «occupanti abusivi», anche quelli che avevano documenti a provare la proprietà del terreno su cui abitavano. La definizione è stata poi mutata in «terreno privato di stato». Intanto, nell’agosto di quell’anno sono cominciate le opere: il lago è stato riempito di sabbia, le casupole che lo attorniavano sono state allagate da un giorno all’altro e poi demolite, migliaia di persone costrette a sloggiare.
Il governo ha offerto in risarcimento l’equivalente di circa 9.000 dollari per famiglia, a volte case sostitutive – spesso però solo temporanee, oppure molto lontane dalla città. Chi non voleva muoversi è stato convinto con mezzi più «muscolosi»: la visita di vigilantes armati che consigliavano caldamente di smammare, se necessario in modo energico.
Nel dicembre 2010 oltre 2000 famiglie, circa metà degli oltre 20mila abitanti, erano andate via. Il lago era ormai riempito di sabbia e terra, distruggendo un ecosistema di stagni e canali che pure aveva grande importanza, non ultimo come regolatore naturale delle piene.
Un movimento di donne caparbie
Più o meno allora però sono cominciate anche le proteste. Troppo tardi per salvare il lago: ma restavano ancora circa 10 mila persone che non vogliono muoversi. È nato un movimento locale di cui sono protagoniste per lo più donne. Determinate, chiedono risarcimenti e soprattutto chiedono che una parte della zona di Boeung Kak, magari 30, 40 o 50 ettari, sia destinata a zona di uso pubblico. Attorno a loro, un coordinamento di gruppi della società civile e ong per i diritti umani (cambogiane e internazionali) ha lanciato la «Campagna per salvare il Boeung Kak», cioè per sostenere gli abitanti e le loro rivendicazioni.
Il caso di Boeung Kak è diventato una spina nel fianco per il governo di Phnom Penh. Primo, perché da ormai cinque anni quelle donne organizzano dimostrazioni e cortei davanti a sedi del governo, ambasciate straniere, uffici delle Nazioni unite. Hanno sfidato le manganellate della polizia. E gli arresti: dal 2011 decine di donne sono state accusate di ostruzione e insulto a pubblici ufficiali. Nel 2013 la polizia ha sbattuto in carcere anche una delle leader del movimento, Yorm Bopha.
Ancora nel dicembre 2014 durante una protesta sono state fermate sette donne di Boeung Kak tra cui Tep Vanny, considerata una delle più prominenti attiviste per il diritto alla terra in Cambogia. Il giorno dopo sono stati arrestati altri tre attivisti che protestavano in loro solidarietà, e un monaco buddhista. Tutti sono stati processati nell’arco di 24 ore e condannati a parecchi mesi di carcere per «ostruzione del traffico» – lo scorso aprile sono stati rilasciati grazie a un provvedimento di “perdono” reale. Ma del resto anche gli attivisti delle organizzazioni cambogiane per i diritti umani subiscono frequenti arresti e intimidazioni.
Intanto la storia di Boeung Kak ha acquistato una certa rinomanza internazionale, ed è il secondo motivo per cui è una spina nel fianco del governo. Nel 2009 infatti la Banca Mondiale e alcune ambasciate straniere hanno chiesto di mettere fine agli sgomberi forzati e nel 2011 la Banca ha anche congelato i suoi programmi di aiuti, criticando la gestione delle terre da parte del governo.
La Banca Mondiale e l’ossessione della proprietà privata
La Banca Mondiale però è parte del problema. Per cominciare, l’organizzazione newyorkese Human Rights Watch l’accusa di non fare nulla per impedire ai governi a cui presta soldi di perseguitare, minacciare, arrestare gli esponenti della società civile che, per esempio, criticano progetti di grandi opere finanziate dalla Banca mondiale stessa (e dalla sua istituzione di credito, la International Finance Corporation, Ifc). In un ampio rapporto (At Your Own Risk: Reprisals against Critics of World Bank Group Projects) pubblicato il 22 giugno, Hrw cita tra gli altri proprio il caso di Boeung Kak in Cambogia.
Non solo. La Banca Mondiale ha prestato fede (e soldi) a un meccanismo di censimento della proprietà delle terre in Cambogia che forse voleva dare ai cittadini garanzie contro espropri arbitrari, ma ha finito per fare proprio il contrario. La vicenda è ben spiegata in un vecchio articolo di Foreign Policy.
Il programma è cominciato una quindicina d’anni fa; l’obiettivo era codificare un sistema di proprietà privata simile a quello che vige nei paesi occidentali, cosa che le istituzioni internazionali consideravano necessaria a sancire la “transizione democratica” in Cambogia. Sta di fatto che il governo di Phnom Penh ha approvato nel 2001 un sistema legale e la Banca Mondiale (con la Banca Asiatica di Sviluppo e altri “donatori” stranieri) ha finanziato con 24 milioni di dollari un programma di censimento e concessione di titoli, il Land Monitoring and Administration Program.
Era complicato però, e non solo perché durante il governo dei Khmer Rouge la proprietà era stata abolita (e i registri della terra distrutti). Anche perché bisognava fare i conti con usi consuetudinari, e con il movimento di grandi masse di sfollati all’interno del paese nei decenni di guerra. E poi perché la certezza del diritto è una chimera in un paese dove le leggi e i tribunali tendono a difendere chi ha potere e soldi. Così finché si trattava di terra di scarso valore non c’è stato alcun problema, ma nelle zone “ricche” per l’industria del legname, le piantagioni di zucchero o di gomma naturale, o per l’edilizia, il sistema si è inceppato: i poveri abitanti locali scoprivano di non avere abbastanza documentazione per chiedere un titolo di proprietà. Invece di diventare “proprietari” sono diventati formalmente “abusivi” sulle terre dove abitano o coltivano o pescano. Insomma, è diventato ancora più facile espropriarsi, con scarsi o nulli risarcimenti: l’articolo di Foreign Policy parla di “un’epidemia” di sgomberi. Certo, nel 2009 la Banca Mondiale e gli altri “donatori” hanno protestato per gli sgomberi – ma poco dopo il governo è uscito dal programma di censimento delle terre (troppo «complicato»). La realtà è quella di Boeung Kak: è bastato che il governo ridefinisse quell’area come «terreno di stato» per darlo in concessione a chi vuole. In quel suburbio di Phnom Penh, se qualcosa protegge gli abitanti che rifiutano l’esproprio è il caparbio movimento di protesta delle sue donne.